Il nuovo Occidente ha un prezzo

La crisi d'identità dell'Occidente dipende dalla sua incapacità di gestire la propria stessa vocazione universalistica

Il nuovo Occidente ha un prezzo

Tre avvenimenti in apparenza assai diversi hanno evidenziato tutti, da ultimo, la crisi d'identità che affligge l'Occidente: la proposta di Giorgia Meloni a Donald Trump di trasformare il suo slogan MAGA, restituiamo l'America alla sua grandezza, in MWGA, restituiamo l'Occidente alla sua grandezza; la morte di Papa Francesco; l'ipotesi che gli Stati Uniti riconoscano la sovranità russa sulla Crimea.

La scomparsa del Santo Padre è l'evento più facile da interpretare: il Pontificato di Bergoglio ha senz'altro rappresentato un momento di marcata accelerazione del divorzio fra una Chiesa cattolica sempre più globale e un Occidente sempre meno cristiano. La composizione del Conclave, nel quale i cardinali europei sono ormai in minoranza, può essere considerata il precipitato istituzionale di questa cesura simbolica. Quel divorzio pone problemi immensi alla Chiesa e negli ultimi giorni non s'è discusso d'altro. Ma ne pone perfino di maggiori all'identità occidentale: esiste l'Occidente senza cristianesimo? Se sì, quali ne sono i confini? E quale rapporto deve costruire allora con le religioni «altre», e soprattutto con quella che più lo sta sfidando, l'islam? Chi pensa di avere già le risposte in tasca, in un senso o nell'altro, per cortesia ci ripensi.

C'è poi una seconda implicazione della fine del Pontificato di Francesco, meno ovvia. Almeno in parte, la crisi d'identità dell'Occidente dipende dalla sua incapacità di gestire la propria stessa vocazione universalistica. Dipende dal dubbio, insomma, se restare ancorato a un territorio circoscritto o ambire a espandersi su scala globale. Questo dubbio c'è da sempre, e la sua sorgente prima è proprio il cristianesimo: il cattolicesimo della tradizione cristiana (è appena il caso di ricordare che, per etimologia, «cattolico» vuol dire appunto «universale») ha ispirato l'Occidente e gli ha fatto da modello. Ma nell'ultimo ventennio quel dubbio si è fatto ancora più pesante. Per una ragione tutto sommato semplice: dopo la fine della Guerra Fredda, i Paesi occidentali hanno spinto al massimo sulla propria vocazione universalistica, nella convinzione di poterla utilizzare per occidentalizzare velocemente il mondo intero. «La Cina avrà una stampa libera», scriveva ad esempio il giornalista Thomas Friedman nel 1999. «Oh, i leader cinesi ancora non lo sanno», continuava, «ma vengono spinti dritti in quella direzione». La strategia però è fallita, e l'Occidente si è ritrovato con un pugno di mosche: non vuole più sentirsi limitato a un territorio circoscritto perché si pensa universale, ma non può nemmeno espandersi dappertutto perché il «Sud globale» lo rifiuta.

La presidenza Trump vuole rispondere al fallimento ormai conclamato dell'illusione che il mondo intero sia disposto a occidentalizzarsi, mettendo innanzitutto in discussione l'universalismo della tradizione occidentale. Se non si coglie questo passaggio, a mio avviso, si capisce ben poco di quello che sta accadendo. Donald è così l'esatto opposto di Francesco: dove questo cercava la soluzione allargando, quello la persegue stringendo. Ma poiché l'Occidente è strutturalmente eterogeneo e plurale, fatto di tante nazioni sparse su più continenti, se si stringe troppo lo si perde. Senza un livello minimo di universalismo, in altre parole, non può esistere.

È qui che si misura tutta la difficoltà della proposta di Meloni di trasformare il programma trumpiano di ripristino della grandezza americana in un programma di ripristino della grandezza occidentale. Poiché, banalmente, gli Stati Uniti non esauriscono l'Occidente, i due programmi non coincidono affatto, anzi si contrappongono l'uno all'altro. Possono essere resi compatibili e convergenti, ma solo a prezzo di un grande lavoro di pensiero e convergenza diplomatica. Al di là dello slogan, insomma, l'ipotesi avanzata dalla presidente del Consiglio può tutt'al più essere considerata l'inizio di un percorso lungo e difficile percorso il cui esito positivo è vitale per chiunque creda nell'Occidente, ma è pure tutt'altro che scontato. Tanto più che l'interlocutore principale degli Stati Uniti, in quest'impresa, può essere soltanto l'Europa. Un continente che dalla Seconda guerra mondiale in poi, nello sforzo di superare le contrapposizioni nazionali e di integrarsi, ha enormemente enfatizzato la propria vocazione universalistica. E ora che si tratta di ripensare quella vocazione, da un lato non è attrezzato, dall'altro si colloca agli antipodi rispetto all'inquilino della Casa Bianca, col quale però è costretto a trattare.

Il riconoscimento della Crimea violerebbe uno dei princìpi fondamentali che l'Occidente ha saputo universalizzare: che l'ordine internazionale si basi sulle regole e non sulla forza. È un caso dirimente, allora: quello che gli Stati Uniti decideranno darà il segno di quanto l'amministrazione Trump intenda distanziarsi dall'universalismo occidentale. Quanto all'Europa, non può che opporsi radicalmente al riconoscimento.

Il Vecchio Continente dovrà però anche ricordare che l'universalismo ha un prezzo. Che è proprio perché non vuole più pagarne il prezzo, che l'America lo sta abbandonando. E che, se gli Stati Uniti non lo pagano, toccherà a qualcun altro.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica