Se la guerra è un affare la ricostruzione lo è ancor di più. Dopo 40 anni e passa di missioni internazionali condotte con efficacia sul piano militare e della sicurezza, ma fallimentari dal punto di vista politico ed economico (Afghanistan, Libano e Iraq insegnano) il nostro governo è intenzionato a garantirsi un posto al sole nella ricostruzione dell’Ucraina. L’affare, se e quando la guerra finirà, non è da poco. Un rapporto pubblicato a marzo della Banca Mondiale stima in 411 miliardi di dollari il costo di un nuovo Piano Marshall per Kiev. Mala grande incognita è la conclusione delle ostilità.
Al momento non sono in vista né un cessate il fuoco, né - tantomeno una pace duratura. Dunque l’unica certezza è l’esponenziale crescita dei danni. Non a caso la stima della Banca Mondiale è già rincarata di 62 miliardi rispetto ai 349 ipotizzati a settembre. E molti osservatori internazionali stimano un costo finale di 750 miliardi. Quanto basta per trasformare l’Ucraina del dopo-guerra nel più grande cantiere del mondo.
Dunque nonostante i progetti messi sulla carta oggi rischino di rivelarsi, alla fine, irrealizzabili, o superati, è comunque importante garantirsi un posto a tavola. Ed è questo l’obbiettivo della conferenza bilaterale per la ricostruzione apertasi ieri a Roma.
Una conferenza a cui partecipano 600 aziende italiane e 200 ucraine e registra la presenza delle principali autorità dei due paesi, dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Denys Shmyhal e Dmytro Kuleba rispettivamente premier e ministro degli esteri di Kiev.
Ovviamente l’Italia non è la sola ad aver compreso l’importanza della scommessa. Già lo scorso agosto il presidente turco Recep Tayyp Erdogan spiazzò tutti sbandierando un memorandum sulla ricostruzione firmato durante il vertice di Leopoli. A dicembre Emmanuel Macron rispose con una conferenza allargata a 700 aziende francesi in cui oltre a offrire garanzie statali a chi investiva in Ucraina annunciò contratti per 100 milioni di euro per la fornitura di ponti galleggianti, infrastrutture ferroviarie e sementi agricole. La Germania invece ha approfittato del Recovery Construction Forum, svoltosi a febbraio a Varsavia, per annunciare la creazione di un fondo di garanzia sugli investimenti e importanti interventi nel settore del cemento.
L’Italia nel suo piccolo si era messa in moto già a giugno 2022 quando Confindustria e governo ucraino siglarono un memorandum «per ricostruire l’economia... ripristinare le infrastrutture... attrarre investimenti e intensificare la cooperazione economica e industriale». Intese seguite a gennaio dalla visita a Kiev del ministro dell’Impresa Adolfo Urso e dall’inaugurazione presso la nostra ambasciata di un ufficio di Confindustria per agevolare gli interventi delle nostre aziende. L’attivismo del governo sconta però i ristretti e complessi ambiti territoriali riservati all’Italia da quella Conferenza di Lugano che a luglio 2022 ha definito le zone d’intervento assegnando a Italia e Polonia la ricostruzione dell’oblast di Donetsk. Una scommessa non da poco per il nostro paese. Cuore assieme al Lugansk della presenza filo-russa la regione è al centro dei combattimenti fin dal 2104 quando votò per la secessione da Kiev. Una secessione seguita lo scorso 31 settembre all’annessione a Mosca. Proprio per questo la partecipazione dell’Italia alla ricostruzione e le sue dimensioni restano ad oggi difficilmente quantificabili.
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