Da Craxi a Renzi: le mille vite di Cicchitto perdente di successo

È stato socialista, poi ultrà berlusconiano, oggi è il "Richelieu" dell'Ncd

Da Craxi a Renzi: le mille vite di Cicchitto perdente di successo

Essendo la fede romanista di Fabrizio Cicchitto saldamente congiunta a quella, parimenti irrazionale, nella superstizione - il non è vero ma ci credo crociano -, pare doveroso subito fornire tre rassicurazioni al Richelieu di Angelino Alfano: quel che segue non vuol essere un coccodrillo politico, non è un ritratto malevolo, la Roma vincerà lo scudetto (indipendentemente dai nostri auguri, che non faremo mancare).

Questo anche perché Cicchitto si appresta a una nuova carriera politica, la sesta, se non abbiamo perduto il conto. Cotto a puntino per il partito della Nazione renziano o, in alternativa, per la costituzione di una lista-civetta per Renzi; una lista anti-gufo. Lo fece già nella prima volta con il Cav, quando rientrò nel teatrino della politica con Abolizione scorporo , collegio maggioritario di Corsico (Mi). Lo fa, anche, con il piglio del giovanotto, in spregio ai 75 anni che compirà tra poco più d'un mese, il 26 ottobre. Forte della considerazione che lui, con il leghista Salvini, non ci starà mai. «Salvini politicamente fa schifo», la sua analisi compiuta. Segno che la tumultuosa politico-fagia, lungi dall'affliggerlo, è fortemente terapeutica. Tiene impegnato il cervello, la dote che anche gli avversari gli riconoscono, tiene in esercizio la lingua, ché la polemica è uno dei suoi tratti distintivi, lo distrae infine dai ricordi di mille vicende inesplicabili per i compagni di ciascuna delle vite precedenti; che si trattasse dei reduci di Lombardi o di Craxi, di Berlusconi o, tra qualche mese, di Alfano (eccezione alla regola: avvezzi a tutto, non si sorprendono di nulla). Ribaltando così il grigio di cui si circonda, dall'abito all'incarnato (la Ravera ha scritto felicemente che persino «il suo sorriso è grigio»), Cicchitto sfoggia così ancora la sua nota verve per rendere omaggio alla nuova stella polare, Matteo. O in dichiarazioni sincere e bizzarre, come: «Se non facciamo le riforme siamo sconfitti, che è la cosa peggiore che mi può capitare».

Questo è il bello di un perdente di lusso come l'ex figlio prediletto di Lombardi, quasi ministro del Lavoro con Craxi, quindi capogruppo forzista degli anni ruggenti. Una specie di cupio dissolvi pare impadronirsi di lui nei passaggi-chiave, affrontati con la paura del timido catastrofista che è, capace perciò di portarsi iella da solo. Per tutta la vita ha fatto di tutto per sfuggire ai propri demoni e alle manie da cui è afflitto, eppure ogni volta, puntualmente, ha posto le condizioni perché proprio quel che temeva gli accadesse. Esemplare la vicenda della P2, che ha condizionato dolorosamente tutta la sua esistenza.

Nel '76 è al Midas che apre porte della segreteria al quarantenne autonomista milanese, «Benny» Craxi (come all'epoca definivano l'allora poco noto Bettino). Assieme ai lombardiani Signorile e De Michelis, sul finire dei Settanta e agli albori degli Ottanta, si avvicina a Craxi come timido ma brillante oppositore, al punto da essere in procinto di diventare ministro del Lavoro, quando il suo nome spunta nella lista di Castiglion Fibocchi, peraltro non in qualità di affiliato ma in «attesa di». Tonfo clamoroso: il vecchio Lombardi lo accoglie come un padre severo e ferito al cuore. «Ti sei affiliato davvero?». «Sì», risponde lui, senza riuscire a scansare un violento ceffone, che provoca la caduta del bastone di Lombardi dalla scrivania cui era appoggiata (così racconta l'aneddotica). «Ammetti tutto», lo licenziò. Misteriosi sono rimasti i motivi della richiesta di affiliazione, anche perché la perfidia dei capi-loggia aveva rifilato proprio a lui, come padrino, l'onorevole missino Caradonna (ex duro della Rsi). Cicchitto cercherà di spiegare, dopo una lettera di Mughini («A un fratello smarrito»), l'accecamento che l'aveva indotto a buttar via tutto per eccesso di prudenza o zelo; qualcuno, tra i tanti massoni socialisti, gli aveva fatto credere che per diventare ministro non mancava che quello. Più tortuoso, lui invece si giustificò dicendo d'essersi sentito isolato nelle guerre tra bande del Psi. Parlò di lettere anonime e di un «controllo molto preciso, professionale» sui suoi movimenti. Fantasie patologiche.

Dopo sette anni di maledizione, che dovettero senz'altro alimentare la paura d'esser proprio iellato, grazie a Bettino, Cicchitto venne ripescato, nell'87. «Dovrai ricominciare da zero», gli disse Craxi, che lo sapeva in fondo onesto. Ancora una volta, all'inizio dei Novanta, Fabrizio era sul punto di sfondare grazie alla cultura politica e al suo cervello «da dottor sottile». Tangentopoli sfondò piuttosto il Psi, facendolo ripiombare ancora una volta alla casella zero. Proprio mentre malediva il destino cinico e baro - «sono stato un paio di volte ad Hammamet - raccontava - perché m'ero avvicinato a Bettino quando i servili andavano via» - ecco l'antico sodale De Michelis raccoglierlo dopo la trombatura nei Progressisti nel '94, la delusione del Psr fondato insieme a Manca, e presentarlo a Berlusconi nel '99. Sisifo abbozzò e ripartì per la scalata, l'ennesima volta. Avendo trascorsi così di sinistra, veniva visto con un certo sospetto dai liberali. Per educazione, rinunciò a definirsi socialista. «Sembra un prete spretato», dirà il compagno Nerio Nesi. Cicchitto s'era resettato l'anima ancora una volta: come nella prima gioventù, trascorsa tra l'Ugi e i tavoli del bar Rosati di piazza del Popolo, gestito dal nonno molisano di Montagano (Cb), è tornato cultore di un Pantheon composto da De Gasperi, Einaudi e Croce. Dei socialisti, mette soltanto Saragat. A questo, unisce un radicalismo anti-comunista che smentisce l'insegnamento lombardiano a «essere a-comunisti» (segno che i ceffoni lui non li digerisce). «Con chi volete che gente come me poteva finire? Mai con i carnefici del Psi». Controprova che non considera Renzi figlio di quella storia.

La fine del partito di Craxi è stato il secondo grave trauma della sua vita. Al punto da sembrare un ultrà della Curva Sud persino alla presentazione di un libro di Paolo Franchi, dove c'era un parterre variopinto: dal sodale romanista D'Alema a Formica, da Fini a Mieli. Scalfari non aveva mancato di definire il Psi craxiano «una banda». Cicchitto s'è morso la lingua e le mani, finché alla fine non è potuto sbottare in una veemente dichiarazione contro il fondatore di Repubblica .

Sentendo che non bastava, s'è messo in favore di telecamera e come un giovinastro che si toglie un gran peso, ha scandito: «Scalfari è un pezzo di merda, ditelo!». L'hanno portato via prima che saltasse alla giugulare di un novantenne.

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