Addio a Steck, giovane re degli 8mila

Colpito da una scarica di ghiaccio, stava prepando l'ennesima impresa sull'Everest

Lucia Galli

Lo chiamavano the swiss machine, ma in montagna il suo vero motore era il cuore. Che gettava oltre ogni ostacolo. Come stavolta. Ueli Steck, uno dei più forti alpinisti della nostra epoca, è morto sabato mattina in Nepal, a 40 anni, precipitando dai mille metri della parete del Nuptse, l'ottomila che aveva a portata di mano, per continuare il suo acclimatamento in attesa del compagno, Tenji Sherpa che, da qualche giorno, era ridisceso al campo base per un principio di congelamento. Steck era rimasto su, oltre la seraccata del Khumbu. Aspettava e si allenava, con l'obiettivo di concatenare la salita di Everest e Lhotse, un'impresa mai tentata per intero. Non per come l'aveva pensata Steck. Lo svizzero, già due volte sul tetto del mondo per la via normale, intendeva salire, prima, lungo il canale Hornbein, mai più ripetuto dal 1963, fino alla cima dell'Everest. Quindi giù per la via normale fino al colle sud, quello «intasatissimo» dalle spedizioni commerciali e del celebre passaggio dell'Hillary step. Poi su di nuovo al Lhotse. Il tutto in velocità, stile alpino, senza ossigeno e con una permanenza prolungata oltre la death zone degli ottomila metri.

Un programma da extraterrestre, ma non per chi, come lui, a 18 anni aveva già scalato la Nord dell'Eiger, che qualche anno dopo affrontò in solitaria, nel tempo tutt'oggi record di 2 ore e 47 minuti. A colpire Steck, secondo alcuni testimoni che l'hanno visto precipitare, potrebbe essere stata una scarica di ghiaccio. Steck scalava solo, slegato, ma anche questa per lui non era una novità. I due «oscar» alla montagna vinse il «Piolet d'or» nel 2009 e nel 2014 premiavano proprio anche le sue imprese in solitaria. Su tutte la salita all'Annapurna nel 2013, dopo la quale lui stesso ammise: «Ho sfiorato il limite». Fra i suoi record ci sono anche quei 62 giorni di 2 anni fa in cui ha scalato di fila le 82 cime alpine sopra i 4mila metri, spostandosi a piedi, in bici e parapendio. Ma c'è soprattutto un'idea nuova di alpinismo, forse più atletica che di avventura. Lui la definiva «acclimatamento attivo» e la riteneva un toccasana anche per ridurre l'impatto ambientale dell'uomo in Himalaya. Allenarsi a casa, quindi partire con una spedizione leggera che si basa su ripetute atletiche ad alta quota piuttosto che su lunghi periodi di progressiva salita in quota. E questo era ciò che stava facendo sabato: nei suoi ultimi post su Facebook raccontava di queste sortite a 7mila metri per poi scendere a quote basse per riposare.

I media nepalesi hanno titolato con freddezza: «Il primo morto di stagione». La notizia è rimbalzata da una tenda all'altra: sono molti gli italiani impegnati in questa affollata primavera sull'Himalaya. Al Kangchengunga sono, ancora insieme dopo la leggendaria invernale 2016 al Nanga Parbat, Tamara Lunger e Simone Moro che proprio con Steck ha condiviso diverse imprese. Tenta una nuova via sullo Shisha Pangma Herve Barmasse, il re del Cervino, che proprio con Steck si era allenato in febbraio. Si cimentano con l'Annapurna, l'ultimo ottomila del loro curriculum di coppia, Nives Meroi e il marito Romano Benet, mentre Marco Confortola prova, con Mario Casanova, a fare del Dhaulagiri, il suo decimo ottomila.

Sono loro, i più connessi, ad aver subito ricordato via web «l'amico Ueli» e così ha fatto un altro big dello speed climbing, il catalano Kilian Jornet Burgada, che proprio sull'Everest proverà fra poche settimane a stabilire un nuovo record di salita. Show must go on. Anche Ueli lo sapeva: «Il mio fallimento? Solo quando non tornerò a casa», aveva detto partendo. Ciao Ueli.

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