Domani uscirò. Per la prima volta dopo 14 giorni, metterò il naso fuori casa. Solo per fare la spesa e andare in redazione, si capisce. Ma, visto che lavoro con Nicola Porro e che lui si è beccato il virus, noi suoi «contatti diretti» siamo in quarantena stretta cioè zero uscite per nessuna ragione- da due settimane piene. Il fatto è che ci siamo chiusi la porta di casa alle spalle il 9 marzo, giusto un attimo prima che arrivasse la serrata del governo, e che l'Italia intera diventasse «zona rossa». E questo mondo nuovo di cui parlate tutti noi non l'abbiamo ancora mai visto. Domani uscirò a conoscerlo. E ho paura. Sia chiaro: capisco la necessità dell'isolamento e del «restateacasa», la pericolosità del virus la capisco benissimo. Ma non riesco a stare tranquilla. Questo mondo nuovo mi fa una paura folle.
Ho paura di vedere con i miei occhi quello che, ogni volta che risaliva dalla spesa, chiedevo a mio marito: «Sono veramente tutti in fila per entrare al super mercato?», «Hanno le mascherine?». E poi quello che non gli ho chiesto. Fa paura stare lì fuori? Fanno paura le persone che incroci?
Ho paura di guardare con sospetto i passanti, di vedere i negozi chiusi, i teatri sbarrati, il Colosseo deserto, i monumenti abbandonati. Mi viene un brivido se penso di trovare i militari per strada, i militari che ti chiedono, armi in pugno, dove stai andando. Mi sembrano i racconti di nonna Marina, di quella volta, durante la guerra, che sua cugina aveva dimenticato il lasciapassare e i tedeschi l'avevano fermata. Mi fa orrore sentirmi una pericolosa sovversiva perché penso che non vedo l'ora di portare mia figlia di un anno a fare un giro dell'isolato.
Ho paura di vedere a quali immagini corrisponda il silenzio spettrale che ho sentito in questi giorni dalla mia finestra. E di non sapere quando finirà. Ma la cosa che mi fa più impressione è trovare, per strada, la morte dell'Europa. E non per via di Schenghen, andato a farsi benedire in un secondo, né perché tutti i nostri amici dei porti aperti hanno ritirato su muri e confini in quattro e quattr'otto. L'Europa è stata pugnalata perché quella cosa terribile, deprecabile e spaventosa che, nella nuova lingua poliziesca, ora si chiama «assembramento», ce l'ha nel cuore. L'Europa è assembramento. Noi siamo l'agorà, l'Europa dei caffè, delle piazze, del balletto, delle botteghe e della musica, delle discussioni attorno al giornale, dei comizi, delle abbuffate domenicali e dei banchetti. Metterli a tacere è mettere a tacere la voce dell'Europa. E se contro il virus serve che diventiamo diversi da quello che siamo va bene, ma non dimentichiamoci di dirlo, almeno. Alcuni sostengono, con una certa leggerezza, che non torneremo più come prima. E magari a questo mondo nuovo ci dovremo abituare. Tant'è.
Domani uscirò e lo vedrò. Il mondo in cui il modello da seguire è diventata la virtuosa Cina. Quello col parlamento imbavagliato e col premier che fa annunci senza contraddittorio via Facebook, in piena notte. Solo a me fa così paura?
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