Udine Esiste un posto nel mondo dove il pane viene fatto con la corteccia degli alberi. Ed è un pane buono, che sa di bosco, che sa di mani che impastano, di mestieri e arti che si imparano e porta con sé il ricordo di quegli alberi abbattuti, dalla tempesta Vaia di due anni fa. Oltrepassiamo il confine Veneto-Friuli Venezia Giulia, l'autostrada si apre dritta davanti a noi e lascia spazio ai verdi prati autunnali, al giallo degli alberi, alle montagne. Uscita Udine Nord, qualche minuto e qui in viale Tricesimo 276 stanno il Ristorante Al Fogolar 1905 e l'hotel Là Di Moret.
Un ristorante con 115 anni di storia che si tramanda di generazione in generazione, il cui proprietario è la famiglia Martini. Grandi chef hanno attraversato questa porta; ora da 13 anni c'è lui, Stefano Basello, 46 anni, di Majano (Udine) che con la sua squadra di 7 cuochi dà vita al pan degli abeti, al pan delle ghiande, con un lievito madre di 55 anni e le farine del bosco. È lui che la mattina parte, con altri due cuochi e va su per i boschi, dove ci sono quegli alberi abbattuti. Il Giornale aveva seguito da vicino il disastro ambientale in quei giorni. Una passione la sua e un voler rimanere ancorato al passato, guardando al futuro, che i suoi genitori gli hanno trasmesso. Le bacche nel bosco, le grappe fatte in casa, le erbe, i prodotti del territorio. E così dopo Vaia ha deciso di non far morire quegli alberi e di riesumare un'antica tradizione dei tempi della guerra. La farina di sussistenza. Sveglia presto, alle cinque si parte, un'oretta e si è in montagna, gerle in spalla - tipico contenitore della zona carnica - e si raccolgono licheni, erbe, cortecce. «Si cercano gli abeti ancora vivi - spiega Basello - che abbiano le radici ben piantate a terra. Le cortecce poi le portiamo a casa, togliamo quella interna con degli attrezzi che ci siamo creati e con il resto facciamo i contenitori». Tutto qui viene servito su legno, corteccia, fette di abete. C'è il pane sopra i sassi riscaldati del Tagliamento, il burro di malga sulla pietra carnica, l'antipasto della casa dentro una corteccia con tronchetti d'abete che fanno da base a pasta fritta con crema di ricotta fermentata di Sappada e topinambur. Il pane è un lavoro di precisione. Dall'acqua recuperata a Timau, prima dell'Austria «perché ci dà una bollatura della crosta molto particolare». Una crosta croccante, intesa, che ti prende. Al forno per cuocerlo, fatto arrivare direttamente dal Belgio. Fino alla scelta precisa di ogni singola erba, farina, pezzo di corteccia. Qui si vedono mani che impastano, che scalpellano, attrezzi che incidono per tirarne via il meglio. «Di 5 sacchi di farina da 25 chili ne ricaviamo due chili e mezzo. È un duro lavoro. Per fare 600 grammi di farina ci vogliono 8 ore e fai 4 pagnotte da 700 grammi. Per questo si chiama Pancor, perché è fatto col cuore». Il 90% della farina è di abete, il 10% è di riso. Un pane impastato da Samuele De Bortoli, 22 anni. Le farine vengono controllate dall'Università di Padova. «C'è un grande lavoro - dice Basello - per portare avanti le tradizioni dando una mano ai piccoli artigiani perché altrimenti perdiamo tutti i valori, le nostre identità e storia. Ed è anche un modo per salvare gli alberi dal bostrico, un animaletto che succhia i principi nutritivi dell'abete e li fa morire». Per questo pan è nato un documentario con il regista Swan Bergman. Il primo di tanti step.
Perché qui, dove siamo seduti ora, qui 115 anni fa c'era un'osteria per cambio cavalli, ora ci sono un hotel, un ristorante, un gourmet, un bistrò, una sala convegni, una Spa. La prova che le cose se non le lasci morire, crescono, lievitano, come questo pane, fatto col cuore.
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