Genova «I soldi per mangiare... Io tra cinque minuti controllo il conto e se non c'ho i soldi questa sera Gianluca e tua figlia lo sai dove cazzo sono?». Poi una pausa. «Io chiamo. Chiamo il 112».
Le parole che anticipano la tragedia hanno una data, un luogo e un nome. Il luogo è Genova, la data è quella del 1 maggio scorso e il nome è quello di Alberto Scagni, la voce che si sente nell'ultima telefonata che il 42enne fa al padre poche ore prima di prendere il coltello, uscire di casa e massacrare la sorella Alice, 35 anni, madre di un bimbo di 17 mesi.
La voce la registra suo padre, che mentre la situazione va fuori controllo chiude dicendo «chiamo il 112». Alberto urla, impreca, offende e poi minaccia, dall'orlo dell'abisso nel quale qualche ora dopo trascinerà tutta la sua famiglia. L'audio della chiamata nelle scorse ore è stato pubblicato su Facebook, sulla pagina «Giustizia per due figli rubati, Alice e Alberto» e il perché lo scrive la madre Antonella Zarri, nei post che seguono e precedono in cui la donna chiede giustizia e chiede perché l'escalation di violenza, nonostante i tentativi di rivolgersi alle autorità, non sia stata fermata in tempo, prima della mattanza.
Per Alberto, disoccupato e con problemi psichici, la famiglia aveva provato a rivolgersi alla Asl, al centro di salute mentale più vicino. Nell'audio risuonano le parole usate nei confronti del padre. «Oh allora - alza la voce il 42enne - i soldi per mangiare uomo di merda, io sono un uomo a differenza di 7 miliardi di persone che stanno sulla terra e respirano l'aria che respiro io e mi fa schifo pensare che respiro la stessa aria». Il resto è un lampo. Riagganciato il telefono Alberto raggiunge casa della sorella nel levante città, la aspetta. Poi la lite e l'arma che spunta, le coltellate, i soccorsi e Alice che non ce la fa, muore sotto gli occhi del marito Gianluca. Alberto Scagni viene fermato poco dopo, ancora i vestiti insanguinati e l'arma addosso.
Il 25 agosto Alberto ha compiuto 42 anni in carcere a Genova, dov'è detenuto dal maggio scorso. «Quarantadue anni fa, giusto a quest'ora, ero mamma entusiasta e orgogliosa di Alberto - scrive la madre via social - poi non ci è toccata in sorte la vita facile e felice a cui ho fantasticato tutta notte il 25 agosto 1980. Ma non meritavamo di essere abbandonati a un destino distruttivo, non meritavamo che nessuno volesse ascoltare e dare aiuto al grido di rabbiosa disperazione di questa telefonata che nessuno si è fatto carico di ascoltare il primo maggio. Eppure l'abbiamo implorato al 112. Fate ascoltare il nostro grido, o vi vergognate?».
Tre mesi e mezzo dopo il primo maggio a Genova piove e in via Balbi Piovera, alture del quartiere di Sampierdarena, tutto è tornato a scorrere, macchine di passaggio, qualche ambulanza diretta al vicino pronto soccorso, via vai nei negozi di vicinato. Al quarto piano dello stabile in cui abitava Alberto invece è tutto fermo al primo maggio, sulla porta ancora i sigilli dell'autorità giudiziaria.
«Non dimenticherò e non mi stancherò - scrive ancora la madre di Alberto - una madre che ha lottato per salvare due figli può diventare implacabile nei confronti di inettitudine ed ignavia delle Istituzioni. Mai tragedia fu più annunciata.
Quel che è peggio - sottolinea Zarri nel suo post - c'è stato scherno della paura di una madre: alla richiesta di controllare lo stato di evidente pericolosità di mio figlio mi è stato risposto da un Agente della Polizia di Stato: Signò, e non 'famola tragica».
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