"All eyes on Rafah". La vita vale un like

I corpi sono neri, rigidi come tocchi di legno. Inceneriti dalle bombe piovute per errore, almeno questa è la versione ufficiale, sulle loro teste, che ora non ci sono più

"All eyes on Rafah". La vita vale un like
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I corpi sono neri, rigidi come tocchi di legno. Inceneriti dalle bombe piovute per errore, almeno questa è la versione ufficiale, sulle loro teste, che ora non ci sono più. Si urla attorno a loro, mentre i telefonini riprendono la scena. Le immagini fanno il giro del mondo, commuovendolo. È l'ennesima strage, questa volta a Rafah, di una guerra che, a ondate, dura da quasi ottant'anni e che è ripresa, con tutta la sua forza, il 7 ottobre scorso quando Hamas, con un attacco vigliacco, ha portato morte e sangue in Israele.

Allah akbar, Allah akbar. E i morti cadevano sui morti. Marciavano i cingoli dei carri armati e i caccia si alzavano in volo, mentre i terroristi si nascondevano nei bunker, lasciando alla mercé delle bombe la popolazione civile. Oltre 32mila le vittime accertate. Effetti collaterali, li chiamano. Anche se hanno un nome e un cognome. E persone che non potranno più riabbracciare. È la guerra, quella che è sangue e merda. E che i film, pur nel loro realismo, non riescono mai a raccontare del tutto.

Da mesi, quello che resta della popolazione di Gaza è accalcato a Rafah, al confine con l'Egitto. Benjamin Netanyahu minaccia un'operazione militare definitiva che, però, non arriva mai. Dopo l'ultimo raid, che è costato la vita ad almeno 45 persone, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha affermato: «Ho l'impressione che Israele stia seminando un odio che coinvolgerà figli e nipoti. Hamas è un conto, il popolo palestinese è un altro. Dovevano discernere tra le due cose e fare una scelta più coraggiosa dal punto di vista democratico». Perché la guerra non è fatta solamente di bombe, ma anche di opinione pubblica. E di consenso internazionale. Che Israele sta, poco a poco, perdendo e che rischia di smarrire per sempre. Anche perché la propaganda usata contro lo Stato ebraico è potente. L'ultima operazione, sapientemente studiata da un punto di vista grafico, riguarda un modello di Instagram che, mentre scriviamo, è stato condiviso da oltre 22 milioni persone. In esso si vede un deserto cosparso da tende ben ordinate e circondato da montagne innevate. E una scritta: «All eyes on Rafah». Tutti gli occhi su Rafah. Perché è qui, oggi, il cuore del mondo. È qui che si soffre e si muore. È vero. Ma è anche qui che si possono sbandierare quei sentimenti pelosi che piacciono alla gente che piace. Perché è semplice condannare Israele per i suoi eccessi (che ci sono e sono sotto gli occhi di tutti). Più difficile, invece, criticare chi usa il terrorismo e, troppo spesso, preferisce nascondersi dietro ai civili per mostrarli poi, a cadaveri ancora caldi, a favor di telecamere. È la propaganda del dolore, che c'è in ogni conflitto, e che colpisce l'emotività delle persone più del loro intelletto. E che funziona, soprattutto sui social, dove vince il tifo da stadio e l'adesione ai buoni sentimenti.

Che poi sono quelli accettati dalla massa, indipendentemente dal fatto che siano davvero buoni o giusti.

Intanto la gente muore, da una parte e dall'altra. E a nessuno importa davvero nulla. Perché la vita, alla fine, vale quanto un like.

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