Sessanta ore allora, trenta oggi. E le notti di mezzo. Loro i soli, da qualche parte al buio, noi gli illesi sdraiati sui loro incubi. A seguire le telecronache di morte e di vita. A quarant'anni di distanza le storie di Alfredo Rampi e di Nicola Tanturli e i loro esiti opposti. Nicola che chiama la sua mamma, Alfredo che non risponde più alla sua. Alfredo in fondo a un pozzo, esausto dall'aria guasta, accartocciato su se stesso, addentato dal gelo e con la voce sabbiosa. Non riescono ad afferrarlo e smette di respirare lì sotto, da dove lo tireranno fuori privo di vita solo un mese dopo: era l'11 luglio del 1981 e in quel maledetto buco ci era finito il dieci giugno. Sessanta ore di tentativi, le ultime diciotto in diretta tv. Silenzio sotto e silenzio sopra. Lui per il poco fiato a disposizione, noi per l'apprensione in ascolto. Lo abbiamo saputo allora, esiste uno scalino così buio in fondo alle discese, dove piangere è una raffinatezza. Non è sempre degli strepiti che bisogna avere paura, ma dei silenzi. Invece è stata la voce a riportare in vita Nicola. Prima i flebili gemiti che hanno destato l'attenzione del giornalista che l'ha ritrovato (Giuseppe Di Tommaso), poi quel «mamma» bisbigliato a ripetizione una volta tratto in salvo. Come fosse venuto al mondo una seconda volta, con quella padellata d'occhi e l'impaurito senso di aver varcato un limite. È uscito dal bosco in braccio al carabiniere che lo ha recuperato dalla scarpata, stava accartocciato su stesso anche lui. Là un pozzo artesiano a Vermicino, qui un bosco sterminato sul Mugello, a oltre tre chilometri da casa da dove pare che Nicola sia uscito in piena notte. Forse perché è abituato alla libertà, che è una via di fuga senza essere inseguiti. O forse per cercare i genitori. Tutte cose da appurare, assieme al lungo tragitto percorso, all'erba sulla quale non ha dormito, alle scarpe che indossava malgrado fosse già stato messo a letto. Ma intanto si parla di un bambino vivo. In trenta ore si era temuto il peggio, anche per la macabra coincidenza con l'anniversario di Alfredino. Una precisa sensazione di avvisaglia, di allarme sottile. Perché chi ha assistito a quella tragedia di quarant'anni fa, non riesce più nemmeno a tornarci con la mente. Alfredino è un nome che fa male e sta accucciato nella memoria di tutti.
Sale un'amarezza acida dallo stomaco, come un'onda alla rovescia. Non ci si può pensare, ad Alfredino. Figurarsi vedere un film sulla sua fine. O pensare che a un altro bambino di ventun mesi tocchi la stessa sorte. Non è successo. Ma ci ha riaperto la memoria come una frustata.
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