Per evitare che i lettori del Giornale rischino di non essere informati sulle vicende che altri giornali hanno raccontato con dovizia di particolari per screditarmi, in particolare l'odiosa Repubblica, vi racconterò questa triste storia di uno Stato che ha perduto la sua dignità. Di cosa si tratta? Di nulla. Del trionfo dell'incompetenza di magistrati, carabinieri e falsi esperti. I quali non hanno idea di quello di cui parlano.
Non esistono falsi di Gino De Dominicis, nato nel 1947, morto nel 1998. Esistono collezionisti che ne hanno acquistato importanti opere sequestrate come fossero false. Il primo a dolersene dovrebbe essere l'acquirente principale, Luigi Koelliker, che si è visto sottrarre, nel 2012, 60 opere che considera, come sono, autenticissime e di cui ha tutti i certificati di provenienza. L'inchiesta nasce dalla totale invenzione di un personaggio, l'avvocato Tomassoni, innamorato di De Dominicis, critico dilettante, che ha dichiarato false le opere comprate da Koelliker, ad evidenza tutte buone e documentate. Le mie perizie sono perfette e incontestabili, anche se le avessi fatte su un piede solo. Di falsi non ce n'è neanche uno.
Perché lo posso affermare? Perché qui nessuno lamenta un raggiro, e chiede alla giustizia di riparare un danno subito. Un processo senza vittime. Secondo magistrati ignari, dal pedinamento di carabinieri risulta che «l'operazione di expertise è avvenuta senza una visione diretta delle opere, al massimo attraverso una riproduzione fotografica, in maniera del tutto inusuale, in una hall di albergo». Non sanno che il 98% delle perizie si fanno su fotografie, scrivendo l'autentica sul retro. Raffaello, come scrive Vasari e disegna Picasso, poteva fare l'amore e dipingere contemporaneamente, e io non posso firmare perizie e telefonare? La mia firma registrava una conoscenza favorita dalla verifica fotografica, supporto della mia assoluta convinzione dell'autenticità delle opere. E nessun perito potrà dimostrare, se non come personale opinione, il contrario, tanto meno un'inesperta totale di De Dominicis come la negromante Quattrocchi. Come può accadere che le energie e le risorse dello Stato siano spese in modo inutile, occupandosi di un caso inesistente e di un artista che, non essendo Morandi o de Chirico o Schifano, nessuno ha interesse a falsificare? Falsi di che, poi? Di idee? Certo non di quadri.
Quando nel 1998 Gino misteriosamente morì, un gruppo di amici si riunì in un'associazione per tenerne viva la memoria. Eravamo tutti esperti, tutti storici o critici d'arte: Maurizio Calvesi, Alberto Boatto, Francesco Villari, Duccio Trombadori e io, con un avvocato amatore e collezionista, Italo Tomassoni, critico d'arte dilettante. Di ognuno di noi si conoscevano gli studi e le competenze, di Tomassoni soltanto l'adorazione per l'artista quasi oggetto di un culto religioso o di rituali para-massonici. Così ci si riuniva, e per dire la dimensione anticulturale e fanatica propria di una setta, il sacerdote (Tomassoni) ci chiedeva di stabilire una regola per vietare, a danno della conoscenza, la pubblicazione di fotografie negli studi sull'artista. Io iniziai a disertare quelle inutili riunioni, come altri indispettiti membri, soprattutto Trombadori e Villari.
Ma quando, sul piano della ricerca e non del mercato, non proponendo opere dell'artista ma cercando di rintracciarle, si istituì la Fondazione/Archivio De Dominicis, da me presieduta, con garanti critici e amici di Gino e la sua compagna-assistente, destinataria per testamento di alcune sue opere, io non uscii dalla Associazione, nonostante il tentativo di scioglierla per fondare un'istituzione parallela, da Tomassoni solo governata, con una cugina totalmente estranea alla materia e teleguidata. Un vero e proprio commissariamento, sotto l'esclusiva guida di una parte interessata al controllo totale del mercato. Su questo si celebrò la rottura, revocando insensatamente, senza conoscerle, circa la metà delle opere del grande collezionista Luigi Koelliker, tra le quali una «Calamita cosmica» che lo stesso artista aveva con le sue mani montato in casa mia a Palazzo Pamphilj a Roma. Si può dire che la Fondazione è nata per conoscere opere sconosciute appartenenti a collezionisti, al di là del mercato, e preparare un catalogo.
L'inchiesta nasce dalla denuncia dell'erede di De Dominicis, pilotata da Tomassoni, che non è riuscito a piazzare nessuna opera presso Koelliker e decide quindi, a priori, di far dichiarare false, non si capisce da chi contraffatte, perché di fonti diverse, le opere comprate da altri mercanti, tutte buone e documentate. A smentire l'idea di una insensata proliferazione di falsi sono le certe provenienze delle opere. La gravità dell'errore del magistrato e l'infondatezza dell'indagine dei carabinieri sono confermate dal fatto che essi, senza avere alcuna idea del valore estetico di Gino De Dominicis che, nel 1972, espose, fra mille critiche, un mongoloide alla Biennale di Venezia, definiscono una ipotesi di reato relativa alla contraffazione impossibile di opere che sono essenzialmente concetti, riconosciuti da una Fondazione che non ha finalità commerciali. Non si tratta dunque di oggetti certificati per essere immessi nel mercato, ma di pensieri e idee di De Dominicis, già appartenenti a collezioni e sui quali la stessa Fondazione, senza finalità commerciali, ha espresso, con libero convincimento, autentiche, secondo la consuetudine di esaminare le fotografie. Documentato è invece che la dichiarazione di falsità delle opere della collezione Koelliker da parte del signor Tomassoni, sedicente esperto, è avvenuta senza esaminarle neanche in fotografia. Peraltro, avendo meno di cinquant'anni, le opere di De Dominicis, o a lui attribuite, non rientrano nel patrimonio tutelato dal Codice dei beni culturali. Chi può affermarne lo status di opere d'arte? In questa materia scivolosa, e non garantita dalla riposata distanza del tempo, chi ha il compito di stabilirne l'autenticità?
Io rivendico l'insindacabilità delle mie opinioni, e ritengo gravemente offensivo e diffamatorio l'essere compreso, con l'ipotesi di reato, nella fattispecie indicata al comma c) dell'articolo 178 del codice dei Beni culturali: «chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti, indicati alle lettere a) e b) contraffatti, alterati o riprodotti»...
In quel «chiunque» io non mi riconosco; e nessuno si può permettere di riconoscermi, non avendo io alcuna intesa commerciale con altri (peraltro ingiustamente indagati). Non esiste elemento, o dichiarazione, che possa far ritenere che io conoscevo la asserita falsità delle opere di De Dominicis da me certificate.
Implacabile e irrevocabile mia convinzione è che non esistano falsi di De Dominicis, che non ne esista un falsario e che, per il limitatissimo mercato dei suoi collezionisti, non abbia alcun senso falsificarne le opere. Tutti i collezionisti e mercanti possono dimostrarne la sempre legittima provenienza. La sgangherata inchiesta è una incredibile montatura, a vantaggio di uno solo.
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