Anno spartiacque, gioia verace, una sola tv. Quella dell'82 è la vera Nazonale del cuore

Stagioni buie alle spalle, niente telefonini, poche voci conosciute a raccontarci le loro imprese e l'umanità schietta di quei ragazzi

Anno spartiacque, gioia verace, una sola tv. Quella dell'82 è la vera Nazonale del cuore

Dicono che la vita comincia solo il giorno in cui si ama e non dobbiamo sottrarre ai vivi l'amore con cui si accompagnano i morti nella tomba. Ieri avremmo voluto essere ancora una volta insieme ai campioni del mondo del 1982 mentre ricordavano Paolo Rossi, un artista del pallone senza muscoli e qualche cartilagene, portando la sua bara, fra un sorriso ed una lacrima. Era un uomo che rendeva bella l'amicizia e fu proprio per lui che quella Nazionale si chiuse nella fortezza del silenzio. Un castello di umanità diverse che divenne squadra ascoltando solo la voce di Bearzot, che andò oltre l'immaginazione lasciando che fosse Dino Zoff ad ammutolirci con le sue parole di pietra.

Nacque così, per davvero, l'impresa. Nel silenzio assordante di marcature feroci, di tocchi raffinati, di reti che toglievano la spada dalla roccia quando tutti pensavano che al Sarria, la Barcellona storica, ci avrebbero mandato a casa. Avevamo bisogno di un sentimento che colmasse le lacrime dell'ignoranza. Dicono che solo all'estero si conosce la voglia di Patria e noi italiani, in quei giorni di piombo, avevamo davvero bisogno di stringerci in un abbraccio. Anche i cinici crollarono. Sarà per questo che in quelle giornate, sentivamo di voler bene a qualcuno, felici di stare insieme, pur pensandola diversamente.

In questo modo la Nazionale di Bearzot è diventata l'amante di tutti, sarà per questo che nel giorno dell'addio a Pablito abbiamo fatto tutti insieme un brindisi, magari con il vino che produceva proprio l'agriturismo del campione, convinti che nessun altra delle nostre squadre Nazionali di calcio meritasse più affetto. Detto così sembra di tornare prigionieri di quella domandina terribile che ogni bambino si è sentito fare quando veniva presentato agli amici di famiglia: vuoi più bene al papà o alla mamma? Enigma che non volevi risolvere e anche adesso se ti chiedono perché quelli dell'82 li porterai sempre nel cuore e, magari, quelli di Lippi, vincitori del mondiale a Berlino nel 2006, li considererai soltanto come una bella squadra unita nel pericolo dai brutti ricordi che si era lasciata a casa con le volanti che invadevano gli stadi.

Bravi tutti, ci mancherebbe, ma queste giornate ci hanno fatto capire che mentiremmo se dovessimo rispondere al quesito senza scegliere gli uomini di quelle giornate spagnole, anche quelle difficili delle qualificazioni. Erano umanità, eravamo tutti noi che uscivamo urlando dalle case, sventolando una bandiera, convinti che ce l'avremmo fatta davvero, forse perché in quei protagonisti con la maglia azzurra vedevamo quello che il calcio moderno, lo sport di oggi, ci trasmette con fatica, a parte forse, i campioni delle discipline meno ricche, i poveri che cercano riscatto dove non c'è il clamore, la corte. Ci bastavano una televisione e una radio come quelle proposte dalla Rai, i tanti canali non ci daranno mai le sensazioni di quelle giornate da Calcio minuto per minuto. I giocatori li riconoscevi non per i tatuaggi, le auto veloci, i festini nelle sale private. Rossi e la sua preghiera per quei gol che univano insieme persino destra e sinistra. L'urlo di Tardelli non era una recita per poter poi vendere l'immagine a qualcuno, era proprio lui, quel canto libero dove tutti si abbracciavano e nessuno allontanava i compagni, persino quello che ti aveva fatto il passaggio vincente, per poter recitare da soli, ringraziando chi stava fuori a curare i tuoi interessi, magari per non sentirsi sgridare se credevi più nella squadra che nel resto: dall'amore, all'agente, dimenticando che in porta si arriva se tutti ti aiutano. Vale per un Governo, vale in un gioco di squadra.

Loro, i ragazzi di quel mondiale erano proprio così. Ci viene in mente il giorno della finale quando all'albergo dell'Italia vedemmo Bruno Conti allontanarsi da solo per cercare concentrazione, non ci venne neppure per un attimo la tentazione di avvicinarlo, quando lo vedemmo andare verso altri compagni ci rendemmo conto che niente e nessuno avrebbe potuto vincerli, magari anche dopo un rigore sbagliato. Amore per sempre e nei giorni dove si doveva chiudere tutto, cantando dai balconi, sventolando una bandiera, nella speranza di battere il nemico di oggi, pensavamo che ci servisse parlare ancora fra di noi, non con un telefonino, sicuri che ci sarebbero venuti in soccorso e non ci avrebbero ripreso a terra svenuti per poi andarsene come in questi mesi di mascherine e abbracci negati.

L'amore e il sentimento. Tantissimi anni fa una bella cena in casa venne illuminata da Silvio Piola, l'uomo di Vittorio Pozzo, nel mondiale del 1938. Anche con lui la tavolata si era divisa chiedendo se era meglio la sua Nazionale o quella di Meazza, ma sempre di Pozzo, che vinse nel 1934. Il campione alzo il suo bicchiere e fu lapidario: tutti grandi, tutti campioni del mondo, decidete voi chi amare di più. La stessa risposta, molti anni dopo, la diede Pepe Schiaffino quando gli chiesero se c'era un titolo mondiale più bello di quello del suo Uruguay nel 1950, altro lutto per il Brasile come quello che vivemmo a Barcellona il giorno in cui Zico, Falcao, Junior e Telè Santana facevano le valige. Anche il grande architetto della squadra rossonera rifiutò i paragoni: chi vince resta sempre, ma io penso con rispetto a chi era stato battuto. Direbbero così anche i campioni che hanno portato in spalla la bara con la maglia numero venti di Pablito. Non farebbero paragoni. Tutti bravi. Certo il mondo intorno al campione da stadio è cambiato davvero tanto. Oggi finirebbero a coltellate i rituali di sberleffo dopo una vittoria importante. Ecco perché rivedere a Vicenza molti dei campioni di Bearzot ce li fa amare ancora di più. Non è nostalgia, anche se magari lo sembra, soltanto la voglia di riavvolgere tutto, magari in quei videoregistratori che in quell'anno bello e maledetto, il 1982 del terzo mondiale vinto dall'Italia, si affittavano perché acquistarli costava davvero troppo.

Bearzot così diverso dai tanti generali di oggi, certo anche da Lippi, forse simile soltanto all'ottantenne Trapattoni che ora guida la nazionale delle rose e per salutare Pablito ha detto una cosa che fa capire come erano fatti questi uomini che nel cordoglio amano ancora dare consigli: «I giocatori non dovrebbero mai andarsene prima dei loro allenatori».

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