Una notizia che riappare dalle brume degli anni Ottanta, che parla di un uomo ormai quasi vecchio che è stato un simbolo della stagione di piombo vissuta dal Paese: e costringe un po' a meditare sulla risposta giudiziaria e politica che gli è stata data.
L'uomo si chiama Mario Moretti, ha appena compiuto settantasette anni, ed è stato uno dei fondatori delle Brigate Rosse: per anni imprendibile, il leader indiscusso che diresse il sequestro di Aldo Moro, condusse l'interrogatorio del presidente della Democrazia cristiana e lo uccise il 9 maggio 1978, dopo cinquantacinque giorni nella «prigione del popolo». La notizia appare ieri sul Giornale di Brescia e racconta la «nuova vita» di Moretti, che ha trascorso il Capodanno e qualche festa a casa, vicino Brescia, su autorizzazione del tribunale di Sorveglianza; che collabora, un po' in presenza e un po'da remoto, con una associazione di volontariato. La vita ordinaria di un anziano con alle spalle un passato non ordinario.
In realtà, nella vita quotidiana di Moretti è cambiato poco. Unica differenza, il carcere dove rientra ogni sera: non più quello di Opera, il grande e duro istituto alle porte di Milano dove è rimasto per decenni, ma che ora era diventato problematico. Il reparto dei semiliberi a Opera è affollato, le «stanze di pernotto», come il lessico ufficiale chiama le celle, ospitano anche cinque o sei persone, e dal punto di vista sanitario per Moretti - che risente dell'età e della inevitabile fragilità di una lunga carcerazione - non era più adeguato. Così il capo delle Br ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Verziano, il carcere bresciano, più piccolo e con un reparto destinato ai semiliberi più accogliente.
Per il resto, Moretti resta in quella sorta di limbo che è la semilibertà: non più davvero detenuto, ma neanche arrivato al «fine pena». Per lui, d'altronde, il «fine pena» non arriverà mai, perchè è gravato da una serie di ergastoli. A ottenere la semilibertà, nell'ormai lontano 1997, arrivò dopo avere dichiarato pubblicamente, insieme ad altri del gruppo fondatore, di considerare chiusa l'esperienza delle Brigate Rosse, e disconoscendo di fatto i nuclei che allora e negli anni successivi si erano impadroniti della sigla commettendo nuovi delitti. Ma non si è mai neppure pentito nè dissociato, come avrebbe potuto fare acquisendo i benefici carcerari. E a chi periodicamente lo invitava a parlare degli aspetti ancora oscuri della storia delle Br ha sempre fatto sapere che non c'è più niente da dire: dietro le Br c'erano solo le Br.
Del nucleo storico restano in carcere, semiliberi come Moretti, poche unità. Alcuni sono morti, come Prospero Gallinari, che prima di andarsene scrisse un libro illuminante sulla sua storia di brigatista; altri sono da tempo del tutto liberi, come Alberto Franceschini che fu tra i primi a dissociarsi, o come Renato Curcio che non avendo condanne all'ergastolo è fuori ormai da un quarto di secolo.
In carcere davvero restano in pochi: gli irriducibili delle nuove Br, o qualcuno della colonna milanese Walter Alasia come Nicola De Maria, che continua a lanciare proclami.Lui, Moretti, di proclami ha smesso da tempo di lanciarne. É in carcere, in un modo o nell'altro, da quarantun anni. Chissà se la cosa ha senso.
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