Cinque quesiti per «toccare» il sistema giustizia che il Parlamento fatica a riformare. I referendum di oggi sono solo un primo passo, in anticipo sulla timida riforma Cartabia che sbarcherà in Senato il prossimo 15 giugno. L'incognita principale è il quorum, ma l'appuntamento referendario è un'occasione per manifestare l'insoddisfazione degli italiani verso il pianeta giustizia. Che resta arroccato in difesa di fronte ai tentativi di riforma nonostante gli eclatanti scandali degli ultimi anni abbiano mostrato l'urgenza di un intervento che, per cominciare, smonti lo strapotere delle correnti.
I cinque quesiti sono intrisi di spirito garantista. Tanto che, a parte Lega e Radicali che li hanno promossi e Forza Italia, +Europa, Italia Viva e Azione che li sostengono, su qualcuno c'è il sì anche dell'ala garantista del Pd, mentre il partito di Letta si schiera per il no (o per l'astensione) come pure i Cinque stelle. Fdi, favorevole al referendum, è però contraria a due dei cinque quesiti. Vediamoli nel dettaglio.
Il primo quesito (scheda rossa), chiede un sì o un no all'abolizione del decreto Severino, che prevede l'incandidabilità, l'ineleggibilità e l'eventuale decadenza (se già eletti) per parlamentari, membri del governo e amministratori locali in caso di condanna definitiva superiore a due anni, con gli amministratori locali che possono essere sospesi anche solo dopo una condanna nel primo grado di giudizio. Tra le «vittime» illustri del decreto Silvio Berlusconi, l'ex sindaco di Napoli (ed ex pm) Luigi De Magistris e il governatore campano Vincenzo De Luca, gli ultimi due «salvati» dalla sospensione dopo condanne in primo grado da una successiva assoluzione. Con la vittoria del sì, scompare l'automatismo della decadenza: sarà il giudice a decidere, in caso di condanna, se applicare l'interdizione dai pubblici uffici.
Il secondo quesito (arancione) chiede all'elettore di eliminare la reiterazione del reato dai motivi per i quali un magistrato può chiedere la custodia cautelare, mentre resterebbero in piedi il rischio di inquinamento delle prove e il pericolo di fuga. La reiterazione del reato, ricordano i promotori, è benzina per le ingiuste detenzioni, poiché è la motivazione più frequentemente utilizzata dai pm, a prescindere dalla concretezza del pericolo, per spedire dietro le sbarre l'indagato prima del processo. L'altro lato della medaglia, come sostiene Fdi, è che il presupposto della reiterazione del reato è la principale arma delle procure contro reati come stalking, furti d'appartamento e spaccio.
Tutti d'accordo, a parte M5s e dem «ortodossi», sul sì al terzo quesito, quello (scheda gialla) sulla separazione delle carriere dei magistrati. Votando sì, si impedisce alle toghe di passare dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti (oggi possono farlo per quattro volte): chi inizierà la carriera come pm resterà tale fino alla pensione, stessa cosa per chi sceglie di fare il giudice. Un modo per assicurare la terzietà di chi è chiamato a giudicare rispetto all'accusa, e un passo più radicale rispetto alla riforma Cartabia che prevede per i magistrati la possibilità di un passaggio tra funzioni nei primi dieci anni di carriera.
Anche il quarto quesito sulle valutazioni dei magistrati vede sul fronte del «no» solo Pd e M5s (oltre alle toghe). Votando sì alla scheda grigia si concede il diritto di voto nelle valutazioni di professionalità e di competenza dei magistrati (che determinano tra l'altro gli avanzamenti di carriera e di stipendio) anche ai membri laici dei consigli giudiziari (avvocati e professori), e non solo ai colleghi della toga che viene valutata. Si mette un punto alla discutibile regola che vuole che solo i magistrati giudichino i magistrati, con la conseguenza che, negli ultimi cinque anni, la percentuale di valutazioni positive è superiore al 99 per cento.
Infine (scheda verde) c'è il quesito che chiede di abolire l'obbligo per i magistrati che si candidano al Csm di raccogliere firme (tra 25 e 50).
Per i promotori del referendum, quella lista di sottoscrittori è di fatto una «benedizione» del candidato da parte delle correnti, il cui peso nelle nomine e negli equilibri del Csm e della magistratura è stato evidenziato da scandali come il caso Palamara. Non è una rivoluzione, è solo un piccolo passo. Ma nella giusta direzione.
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