Quando l'estate scorsa riaprì dopo tre mesi di lockdown, gli applausi si levarono dal piazzale antistante; segno di quanto il Centre Pompidou fosse, per Parigi, molto più di un semplice museo. Già a luglio, la pandemia aveva costretto il «Beaubourg» ad allontanarsi dal suo spirito di «contenitore» d'arte «democratico»: dall'essere cioè una casa per chiunque fosse disposto a mettersi in fila, alla prenotazione obbligatoria causa Covid, ingressi ridotti alle mostre e biblioteca dimezzata: da 2 mila a mille persone al giorno. «Uno shock culturale sia per gli utenti che per il personale», ha riconosciuto il presidente. Ora la notizia di una serrata di tre anni e mezzo destabilizza un'intera città: da fine 2023, il Centre Pompidou chiuderà per riqualificazione. Riapertura prevista solo nel 2027.
«Non abbiamo più scelta, è in cattive condizioni», ha spiegato il presidente del Centro. Ma per chi vive la Ville Lumière, il «Beaubourg» rappresenta ben più di un mero edificio destinato a ospitare opere d'arte. Habitué, squattrinati o meno che siano, trovano in esso un luogo di aggregazione. Hub culturale e trasgressivo al tempo stesso. Qui sono nati scrittori e opere premiate, romanzi, partiture. Concerti con vista sulla piazza, dal tetto, nell'atrio. Tornerà un cantiere, magari come quando Italo Calvino dava suggerimenti a Renzo Piano, sul pulire le pareti di vetro «con giganteschi spazzoloni come quelli usati negli autolavaggi».
Il problema oggi sono i suoi quasi 44 anni di età e diversi pannelli di amianto: saranno rimossi dalla facciata e dalle finestre; poi gli impianti di ventilazione da modernizzare e gli ascensori e le scale mobili da revisionare. Un «lifting» da 200 milioni di euro. «C'erano due opzioni sul tavolo, ristrutturare tenendolo parzialmente aperto, o chiuderlo completamente - puntualizza la ministra della Cultura Roselyne Bachelot - Ho scelto la seconda più dolorosa perché richiede meno tempo». Ma tre anni senza file di ore per entrare, senza pianoforti da prenotare, scale mobili da salire e sguardi da incrociare, sono troppi anche solo da pensare per i parigini. Ecco perché centinaia di studenti, ma pure intellettuali, insegnanti e professori, hanno lanciato un sit-in per sensibilizzare chiunque non ci abbia mai messo piede, invitando a farci un salto prima che chiuda le sue porte.
Figlio del Maggio '68, e della negazione di una visione elitaria dell'istituzione culturale, il gigante di tubi e acciaio ha assunto una piega peculiare. Fasce sociali diverse sedute agli stessi banchi dentro regole precise. Arte, musica, visual e senzatetto. Come il Guggenheim per New York, rappresenta l'identità della capitale. Luogo democratico (entra chi prima arriva: se si riempie, biblioteca off limits) ed è il fulcro di un quartiere a cui è difficile rubare la scena come Le Marais. È pure una storia francese, di un presidente appassionato d'arte contemporanea che gli ha dato il nome. Ma è soprattutto il simbolo di una rottura con la sacralità museale. Una «fabbrica» nel cuore nobile della Ville Lumièrehe chiude, lasciando migliaia di persone senza il cibo dell'anima.
É il simbolo dell'accoglienza, del mélange di una capitale che permette a tutti di consultare libri, giornali e settimanali; ascoltare musica, socializzare sui pianerottoli. Da Pablo Picasso in uno dei piani al padrino della techno francese Laurent Garnier spesso in console all'ingresso. Tra le opere di Chagall o Matisse si mescolano accademici e studenti, oltre che turisti.
Ecco perché la notizia della chiusura per ammodernamento ha sconvolto la cittadinanza. Più di quanto sconvolse l'opera finita progettata a inizio Anni '70 da Renzo Piano e Richard Rogers. É l'opposto di un museo che incute soggezione: con pochi intellò e tante persone senza la smania d'apparire.
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