Bertolaso sul fronte anti-Ebola. "La lotta inizia dalle sale parto"

Il medico è al lavoro in Sierra Leone per creare nuove strutture sanitarie: "Su 10mila bimbi solo 400 nascono in ospedale. È la prima emergenza"

Bertolaso sul fronte anti-Ebola. "La lotta inizia dalle sale parto"

Poco dopo il tramonto, complice un generatore che spesso si inceppa, consumato l'unico rapido pasto del giorno a lume di candele cinesi, crolliamo esausti.

Siamo in tre, Clara, capo progetto, esperta di sanità pubblica con anni di Etiopia e guerra civile angolana alle spalle, Enzo, il mio idolo di Yirol, medico chirurgo con l'Africa nel sangue, artista di sale parto ed operatorie, rimpianto in Tanzania, Angola, Mozambico e Sud Sudan, ed io. Quasi duecento anni in tre, non ancora rottamati, almeno da queste parti.

La Sierra Leone è divisa in 13 distretti, tutti più o meno colpiti dall'Ebola. Pare che una bimba di due anni, lo scorso aprile, arrivata dalla Guinea Conakry abbia fatto scoppiare l'epidemia a Nord, dove ci troviamo.

Immaginiamo questo Paese come l'Italia del centro-Nord. La bambina è entrata in Friuli, l'epidemia si è diffusa prima in Veneto, ha colpito e ucciso nella città che da noi potrebbe essere Venezia, poi si è diffusa a macchia d'olio in Emilia e devastato Bologna per poi arrivare, inevitabilmente, nella capitale e nei dintorni affollati e poveri. Qui si è ben radicata ed oggi è l'epicentro della battaglia. Nel distretto ci vivono circa 350mila persone, sparse in villaggi difficili da raggiungere.

Diecimila donne partoriscono ogni anno, non più di 400 in ospedale. Dove vanno le altre e che fine fanno i neonati è il cruccio di Enzo. Come gestire la rete degli operatori sanitari, incentivarli, formarli e attrezzare i centri di salute è il cruccio di Clara.

Ma se Enzo è stato da poco prelevato a forza in Mozambico e spedito qui da poche settimane, Clara combatte da nove mesi una battaglia faticosa ed impari. Su di essa si è poi abbattuta l'epidemia di Ebola che ha colto tutti impreparati e la gente del posto ostile alle misure di cautela necessarie e contrarie alle loro abitudini sulla cura dei malati e sulla preparazione delle salme prima del funerale.

Clara ha gestito una situazione critica con la saggezza e la fermezza tipica delle donne, con garbo, con diplomazia, con equilibrio ha saputo mandare avanti il centro materno infantile con 80 letti per il quale il Cuamm è qui, ha mediato le tensioni fra i medici italiani che c'erano prima e che non si amavano, ha cucito i rapporti con la gente del posto che osservava, giudicava e reagiva. Se il distretto si fosse trovato lungo la via di penetrazione del virus sarebbe stato il disastro, per fortuna la collocazione leggermente eccentrica rispetto alla direttrice principale ha limitato i danni e fino ad oggi ci sono stati 28 casi confermati e, forse, 22 morti.

Il distretto dove ci troviamo, quello di Pujehun è posizionato come le Marche, al posto dell'Adriatico c'è la Liberia. È un territorio tipicamente tropicale con splendide foreste di bambù, di alberi della gomma e di mogano. Per arrivare nel paese si attraversano tre fiumi nessuno più piccolo del Tevere. Compaiono all'improvviso dalla foresta, te ne accorgi perché intorno c'è più vita e ci sono i posti blocco dove ti misurano la temperatura e ti devi lavare le mani nel cloro.

Sulla riva vedi i pescatori su piroghe primordiali ed i cercatori di diamanti che setacciano tutto il limo che i fiumi portano a valle. Da qui alla frontiera con la Liberia scorrono altri due fiumi che, mi dicono, sono ancora più imponenti di quelli che ho visto, senza ponti l'unico modo per attraversarli è affidarsi a rudimentali traghetti a fune fatti di piroghe legate di traverso. Quando piove sembra di stare sotto le cascate Vittoria, quando smette non c'è sollievo ma solo umidità e afa quasi insopportabile, all'inizio cerchi di combattere cambiando abiti di continuo, poi ti arrendi e giri inzuppato fino alla doccia serale.

Ovviamente la maggior parte dei decessi si è verificata quando nessuno era pronto a gestire l'emergenza, quando i malati venivano ammessi negli ospedali in promiscuità con altre patologie, quando medici ed infermieri hanno pagato con la vita la scarsa organizzazione e la paura della gente a collaborare.

Poi, troppo lentamente, la reazione mondiale ha cambiato il quadro catastrofico ed oggi una migliore organizzazione e la consapevolezza di tutti su come affrontare l'emergenza ha creato quelle misure per le quali, anche stamane, ci hanno detto che in Liberia le cose sono migliorate e nei nostri distretti i casi stanno diminuendo. Ma non v'è dubbio che sia questo paese a correre ancora i rischi maggiori e dove la rete di sorveglianza e controllo deve essere ancora intensificata. Nella capitale e nei dintorni si stanno costruendo a vista d'occhio i nuovi centri di trattamento per i malati di Ebola, lontani dai centri abitati e ben sorvegliati dalle forze armate con materiale, farmaci e tecnici preparati e consapevoli dei rischi che corrono. Ogni distretto del Paese deve poi dotarsi di un Ebola holding centre dove i casi sospetti debbono essere ricoverati in attesa degli esami di laboratorio. Se positivi all'Ebola verranno poi trasferiti con ambulanza nei centri di trattamento dove ormai i posti letto abbondano.

Anche Pujehun doveva quindi dotarsi subito dell' holding centre . Fino ad oggi una tenda donata da Save the Children situata a pochi metri dalla cucina dell'ospedale svolgeva la funzione di centro di isolamento con parenti e personale locale sempre intorno a chiacchierare o confortare i casi sospetti. Era quindi fondamentale intervenire subito, già nei giorni scorsi qualche caso sospetto aveva contagiato gente del posto a causa di questa promiscuità pericolosa. Il Cuamm doveva quindi costruire l' holding centre fuori dal Paese e la richiesta era ormai pressante e non più rinviabile pena reazioni violente sia da parte delle autorità che della gente del luogo. Enzo e Clara non potevano certo caricarsi anche questo fardello. Bisognava individuare un sito idoneo, fare tutti i rilievi, progettare la struttura e cominciare a costruirla con le poche forze a disposizione sia come materiali che come uomini.

Ecco perché sono qui. Dopo i primi giorni passati a Freetown a visitare centri più o meno simili e dopo aver incontrato quelli della Croce Rossa Internazionale e dei Medici senza frontiere che gestiscono i centri di trattamento più vicini a Bo e Kenema, mi sono messo al lavoro.

Lungo la strada che da Pujehun ci collega al resto del mondo Clara ha trovato un terreno non perfetto ma in grado di essere allestito per organizzare il centro.

Pagando il carburante dell'unica macchina utile per spianare l'area e facendo amicizia con un ragazzo del Gambia, sveglio e capace, abbiamo cominciato a sradicare gli alberi e a livellare il più possibile la terra.

Nello stesso tempo progettavo la struttura dell'impianto basandomi sulle linee guida dell'Oms e di Msf non facili da adattare allo spazio che avevo. Un centro di isolamento, qualsiasi sia la malattia da controllare, deve rispettare criteri di sicurezza precisi, deve garantire l'accesso ai malati e il lavoro dei medici e degli infermieri, deve assicurare tutti i servizi fondamentali, luce acqua, latrine, alloggi, materiale per sterilizzare, deve evitare contaminazioni ed errori. A Dallas, ad Atlanta, allo Spallanzani di Roma e al Sacco di Milano sono fatti a regola d'arte, ci vogliono anni e milioni di euro per costruirli, forse ancor di più per gestirli. Qui, in prima linea, ci si arrangia e ci si adatta a quello che passa il convento ma le regole e le procedure sono le stesse. La vita di una persona, di un medico, di un infermiere, di un tecnico, di un paziente e di un familiare non possono avere significati diversi a seconda della geografia.

Il terreno spianato era abbastanza largo ma molto in pendenza rispetto agli spazi di cui avevamo bisogno. Quindi gira e rigira il progetto: alla fine sono riuscito a far quadrare il tutto riducendo le dimensioni, ma non le funzioni od i criteri di sicurezza. È venuto fuori un progetto frutto di miei continui schizzi e modifiche, tradotto poi dal fratello di Enzo - abituato a disegnare per lui Pediatrie e sale parto in giro per l'Africa - che lo ha riportato in scala. Nella zona di terra, che siamo riusciti a livellare con la ruspa, ho immaginato il posto di guardia accanto all'ingresso dell'area a basso rischio. Qui entra il personale sanitario, che si spoglia e indossa camici e stivali, si sterilizza con una bella innaffiata di acqua clorinata e lavora in quel settore senza contatti con i casi sospetti. Dietro viene realizzata l'area ad alto rischio, lontana e poco visibile dalla strada, orientata verso la foresta. Attraverso un ingresso super controllato.

Qui le ambulanze scaricano il caso sospetto che viene sottoposto ad un primo screening e poi diretto verso il settore dei casi sospetti, isolato dal resto da una doppia recinzione. I sanitari entrano nell'area rossa tramite una stanza che rappresenta il cuore della struttura. Qui dentro ci si cambia di nuovo, si lasciano gli abbigliamenti da corsia e si indossano le tute e gli scafandri oltre a tre paia di guanti ed occhiali. Finalmente, in condizioni di massima sicurezza, il medico o l'infermiere entrano a contatto con il paziente, fanno il prelievo di sangue che viene subito portato con l'ambulanza al laboratorio di Msf a Bo, o a quello della Croce Rossa a Kenema. Al massimo entro due giorni arriva la risposta. Se affermativa, il malato passa nell'area dei positivi per il tempo necessario ad essere prelevato dall'ambulanza super-protetta e trasferito ad uno dei due centri di trattamento. Se negativo sarà malaria o polmonite, gastroenterite od altro e quindi ricoverato, se necessario, nell'ospedale del distretto.

Il momento più pericoloso per chi lavora nel centro è il rientro dall'area rossa a quella del basso rischio. Molte delle vittime fra il personale sanitario hanno contratto l'infezione quando si sono spogliati degli scafandri. Qui ci si rilassa, stanchi, sudati e stremati dalla tensione si può commettere qualche errore fatale, ti detergi gli occhi dal sudore quando ancora indossi i guanti od altro del genere. Qui infatti, quando ci si spoglia occorre la massima attenzione e serve che un collega ti guardi mentre ti spogli e ti aiuta ad evitare la cazzata fatale.

Questo era il

progetto e lo schema operativo per Ebola. Ho raccolto i giovani del posto, ansiosi di dare una mano, ho coinvolto grazie ai soldi ed ai contratti fatti da Clara due o tre piccoli imprenditori. Ed ora siamo al lavoro.

(2 - fine)

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