Joe Biden parla di «sistema bancario più resiliente e stabile grazie alle azioni prese», Ocse e Standard&Poor's escludono rischi di crisi sistemica o di contagio, il governatore della Banca di Francia parla di banche europee «estremamente solide», ma i mercati sembrano avere un'unica certezza: non sono più sicuri di niente. Così, si continua a vendere fino a far assumere agli indici l'ennesima piega ribassista. Il giorno delle tre streghe ha complicato ieri la vita a Wall Street (-1,4% a un'ora dalla chiusura), ma non è andata meglio altrove (-1,64% Milano, -1,26% lo Stoxx600) nell'ultima seduta di una settimana sporca, brutta e cattiva. Da venerdì 10, epicentro del terremoto scatenato dall'implosione di Silicon Valley Bank (ieri la capogruppo Svb Financial Group ha chiesto il Chapter 11, ovvero la bancarotta assistita), a venerdì 17 la propensione al rischio è finita sotto i tacchi. Spinta lì da bad news che non sono mancate neppure ieri, in un continuo rimbalzare di echi sinistri dagli States al Vecchio continente che alimentano la paura che il cerino acceso rimanga in mano a parecchi. E il fiammifero ustionante potrebbe essere Credit Suisse, crollata di un altro 8%. Nella tarda serata di ieri, rilanciata da Financial Times, è arrivata la notizia di una Ubs che sarebbe in trattativa per acquistare tutto o una parte Credit Suisse. Secondo fonti, i consigli di amministrazione delle due banche si incontreranno questo fine settimana per valutare l'operazione, orchestrata dalla Banca centrale svizzera e dalla Finma, l'autorità di regolamentazione del mercato. I mercati del resto fiutano ancora il pericolo, malgrado la robusta dote miliardaria assicurata dalla banca centrale. Sono le quotazioni dei bond a preoccupare, e nello specifico obbligazioni per un controvalore per almeno 76 miliardi di franchi svizzeri. Il loro valore è inferiore al 30% di quello nominale, a evidenziare come il rischio di perdite ingenti, in caso di salvataggio pubblico, sia considerato tutt'altro che remoto dagli investitori. Ma anche dall'altra parte dell'Atlantico non sono arrivate notizie rassicuranti. Il piano di salvataggio da 30 miliardi di dollari per First Republic Bank, che ieri ha comunicato la sospensione dei dividendi, potrebbe non evitare il crollo dell'istituto californiano. Dubbi che hanno provocato una picchiata dei titoli in Borsa del 25% che porta a circa al 70% la perdita settimanale. Un clima intossicato anche da come il sistema bancario americano si sta comportando nel mezzo della bufera. Piuttosto che bussare alla porta del Btfp, il programma con cui la Fed offre prestiti della durata massima di un anno, si preferisce attingere liquidità dalla vecchia «finestra di sconto», lo strumento in genere utilizzato per mantenere adeguato il livello delle riserve. Ebbene, nella settimana terminata il 15 marzo, questi prestiti sono esplosi a 152,85 miliardi di dollari, con un salto in sette giorni di 148 miliardi, una cifra record. I fondi usciti da Btfp sono invece stati di poco inferiori ai 12 miliardi, per buona parte utilizzati da First Republic Bank. E un motivo c'è: è lo stigma associato allo strumento, una sorta di Mes a stelle e strisce, il cui utilizzo sarebbe come ammettere uno stato pre-fallimentare. In questo modo, sono stati vanificati quattro mesi di restringimento del bilancio, poiché la banca centrale Usa ha iniettato liquidità per quasi 300 miliardi, se si considerano anche i 142,8 miliardi concessi alla voce «altre estensioni di credito».
JP Morgan stima però che il Btfp potrebbe arrivare a 2mila miliardi, agendo così da Qe invisibile. Di sicuro, almeno fino a quando non si sarà arrestata la fuga dai depositi, per Powell non ci sono alternative: deve fermare il rialzo dei tassi e tenere sotto la propria ala il sistema bancario.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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