Ve lo ricordate Barack Obama premio Nobel sulla fiducia? Durò lo spazio di un mattino. Poi bombardò la Libia, moltiplicò le truppe in Afghanistan e tornò in quell'Irak da cui se n'era andato senza comprendere il pericolo del nascente Stato Islamico. E, non pago, coccolò e armò i ribelli jihadisti in Siria mentre dava una mano ai sauditi a seminar bombe sullo Yemen. Insomma l'esatto contrario dei propositi pacifici e accomodanti su cui il mondo «liberal» scommetteva basandosi sul colore della sua pelle. Con la coppia Joe Biden-Kamala Harris rischia di non andare molto meglio. Pur di non far i conti con qualche sfacelo imprevisto, quelli di Time - un tempo rivista prestigiosa oggi rotocalco di qualche decina di paginette - han deciso di copiare i giurati di Oslo e premiarli in anticipo. «Il riconoscimento non riguarda soltanto l'anno appena passato, ma anche dove siamo diretti» - ha sentenziato il direttore Edward Felsenthal, ammettendo implicitamente che per gli eventuali meriti bisognerà aspettare. E soprattutto sperare.
Del resto una foto in copertina e la scritta «personaggio dell'anno» non si nega a nessuno. L'hanno regalata a Hitler e Stalin prima, all'Ayatollah Khomeini e al nemico Vladimir Putin qualche decennio più tardi. Perché mai rifiutarla a uno dei presidenti più anziani della storia? E come negarla a un numero due capace di esibire femminilità, origini esotiche e pelle scura, ovvero le qualità più gradite ai devoti del politicamente corretto?
Certo, se poi vogliamo chiederci cos'abbiano fatto per meritarsi quel titolo, il discorso si fa più complesso. Per capirlo basta scorrere l'articolo di accompagnamento con cui Time si sforza di giustificare le proprie scelte. Seimila e 500 parole di mielosa e leziosa fuffa adulatoria dove la verità emerge solo quando l'articolista si decide a ricordare i flop inanellati da Joe e Kamala durante le primarie. Flop da cui Biden si salva solo grazie all'aiutino di Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, i due rivali democratici pronti a sacrificarsi e regalargli i loro voti pur di impedire la nomination di quel Bernie Sanders che avrebbe garantito la permanenza di Donald Trump alla Casa Bianca. Da quella semplice verità nasce tutto il resto. Ovvero una spregiudicata «combine» elettorale dove la decisione di puntare sul colore della pelle e sulla femminilità della Harris non sono figlie di scelte etiche o di disinteressate convinzioni liberali, ma del più bieco opportunismo. Non a caso la Harris, bocciata dagli elettori e abbandonata dai suoi finanziatori, rientra in gioco solo quando Biden si rende conto di aver bisogno di lei per recuperare i voti dei neri e delle donne.
Nonostante le sdolcinate lusinghe, quella che Time cerca di presentarci come la coppia più bella mai affacciatasi sui viali della Casa Bianca appare insomma come il risultato di un disinvolto matrimonio di comodo. Anche per questo il «dove siamo diretti» azzardato dall'improvvido direttore di Time rischia di non condurre a nulla di buono. A indurre al pessimismo contribuisce l'inconciliabile indole dei due partner. Da una parte il congenito ecumenismo di un Joe Biden consapevole di aver davanti solo quattro anni per stringere tutti i compromessi di cui è maestro e venir ricordato come il nonno buono capace di riconciliare l'America lacerata e divisa dal «cattivo» Trump.
Dall'altra una Kamala Harris condannata a essere aggressiva e rapace per emergere dalla melina impostale dal suo capo. Dimostrando così di essere lei il solo e autentico presidente capace di guidare l'America non solo per i quattro anni che verranno, ma anche per i due mandati che seguiranno.
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