Ore 6.30, mercoledì 22 maggio, interno di un appartamento Aler di via Ricciarelli 22, zona popolare del quartiere San Siro, a nord ovest di Milano. Il medico legale redige un certificato di morte asettico e stringato: «Mehmet Rhustic, 2 anni, croato, è morto nella notte. Su tutto il corpo numerosi ed evidenti segni di violenza». Subito dopo però non regge. E davanti alla smisurata e incomprensibile violenza di un padre nei confronti di uno dei suoi tre figli, si siede e domanda un bicchiere d'acqua per potersi riprendere.
Ieri il pm Giovanna Cavalleri, chiedendo la condanna all'ergastolo con isolamento diurno per 9 mesi per il genitore responsabile della morte del bambino - il 26enne di origini croate Aliza Hrusic, in carcere per omicidio volontario, torture e maltrattamenti aggravati (circa 48 ore prima della morte bruciò i piedi di suo figlio con dei mozziconi di sigaretta) - ha raccontato in aula in maniera dettagliata l'«escalation di violenze, di una crudeltà così gratuita da non trovare giustificazioni» di cui è stato vittima il piccolo in quella terribile notte.
La precisione diventa un obbligo morale, seppur spesso doloroso, per fare giustizia e tutelare la memoria di un essere indifeso che, come un bimbo, viene maltrattato e ucciso dalla persona da cui dovrebbe essere maggiormente protetto e amato, un genitore. «Non c'è solo il colpo mortale alla testa, ma qualcosa di incomprensibile all'animo umano» ha spiegato così la rappresentante della pubblica accusa. Sottolineando che il cadavere di Mehmet presentava «ecchimosi al volto, al tronco e agli arti inferiori, fratture diverse, morsicature, tutte realizzate quella notte, oltre alle bruciature da sigarette». «Ci sono 51 lesioni differenziate, 51 colpi uno separato dall'altro e poi quella frattura alla testa, incompatibile con una caduta, con cui si voleva cagionare la morte». La pm ha quindi ricostruito un clima famigliare da incubo. In cui la madre del piccolo ucciso e compagna dell'assassino era «completamente assoggettata al marito, consumatore di hashish, e alla sua famiglia e poteva proteggere i figli (Mehmet e le due sorelline maggiori) solo «tenendoli a dormire tutti e tre con sé». Una donna, la 23enne Silvjia, allora al quinto mese di gravidanza, che non poteva telefonare perché il suo uomo le aveva tolto il cellulare e l'aveva segregata in casa. Vengono i brividi infatti quando la pm in aula ricorda la notte dell'omicidio, propria attraverso la testimonianza di Silvja. «Sento un rumore di pugni come se picchia qualcosa - ha raccontato agli inquirenti la giovane mamma -. Il bimbo era in salotto, era sporco. Lui gli dava dei pugni nella schiena, Mehmet se la faceva addosso dalla paura e lui gliela voleva far mangiare...Io dicevo: picchia me e non il bambino!. Non respirava più...».
Da parte sua il padre ha provato persino a minimizzare le proprie responsabilità.
«Dice di averlo picchiato piano e che il bambino era delicato» ripete la pm. E conclude: «Dove può aggiungere particolari lo fa in maniera mendace e cerca di coinvolgere la moglie, parte civile, alla quale non può essere imputato il concorso».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.