Boss liberi, Di Matteo affonda Bonafede

Deposizione all'Antimafia: "Scarcerazioni? Cedimento alla mafia"

Boss liberi, Di Matteo affonda Bonafede

Una frase che può essere letta come l'incipit di un giallo: «Per quest'altro incarico non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano». A chi si riferiva il ministro della giustizia Alfonso Bonafede con quelle parole allusive e indecifrabili? Nino Di Matteo, magistrato di lungo corso e oggi componente del Csm, si presenta davanti alla Commissione antimafia e mette nei guai il Guardasigilli: conferma le rivelazioni fatte nel corso del programma Non è l'Arena del 3 maggio scorso, e aggiunge un corredo di dettagli. Poi si fa sferzante davanti alle scarcerazioni dei boss per l'emergenza Covid: «Sono state un segnale devastante e interpretate come un cedimento».

Composto, circostanziato, istituzionale, Di Matteo ricostruisce la sua mancata nomina a capo del Dap, con annesso rebus. È il 18 giugno 2018 e il pm siciliano sta lavorando alla stesura di un libro con Saverio Lodato, collaudatissimo narratore di Cosa nostra. Suona il telefono, è Bonafede: il ministro gli propone la direzione del Dap o, in alternativa, quella degli Affari penali. «Almeno tre volte - nota Di Matteo - lui mi disse: Scelga lei. Quando gli dissi vengo da lei domani, lui ribadì scelga lei. Chiusa la telefonata, dissi a Lodato che non avevo alcun dubbio sull'accettare il Dap».

L'indomani, Di Matteo si presenta in via Arenula per dire sì alla direzione delle carceri, ma la musica è cambiata: «Con sorpresa il ministro disse che sì, l'incarico era importante, ma c'erano prevalenti aspetti che non erano confacenti alla mia precedente esperienza, alle mie attitudini».

Insomma, il 19 giugno, di fatto Bonafede innesta una tortuosa retromarcia e si rimangia quel che aveva promesso, disegnando per il vertice del Dap un profilo completamente diverso da quello tratteggiato solo il giorno prima.

Il dialogo si avvita. Bonafede insiste con il piano B, la direzione degli Affari penali ed evoca il nome di Giovanni Falcone che guidò quell'ufficio prima di morire. Ma Di Matteo gli ricorda che gli Affari penali sono cambiati da allora e sottolinea invece l'importanza del Dap: «Gli feci notare quanto fosse fondamentale la direzione del Dap nell'azione di contrasto a 360 gradi alle mafie».

Il pm, delusissimo, torna nel suo bunker alla Procura nazionale antimafia e decide di non tirare in lungo la commedia sugli Affari penali. Chiede un nuovo brevissimo appuntamento al ministro per il giorno successivo e il 20 giugno è ancora a colloquio con Bonafede: «Sto bene dove sono, non sono disponibile, non mi contatti a settembre per gli Affari penali». Ma il ministro non molla: «Lui insistette più volte. E mi disse: Ci sto rimanendo male perché per quest'altro incarico non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano».

Parole criptiche e oscure. Parole che ora il ministro dovrà affrettarsi a chiarire, come chiesto da alcuni parlamentari appena finita l'audizione di Di Matteo.

Sicuramente il nome di Di Matteo circolava già per quell'incarico e questo preoccupava gli ambienti mafiosi e i detenuti al 41 bis, disposti a tutto pur di non avere lui in cima alla piramide del Dap. Ma può anche essere che il veto, se c'è stato, sia arrivato da qualche manina nel Palazzo. Il mistero resta. E la poltrona di Bonafede, già in difficoltà, scricchiola.

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