Si sono succceduti una dopo l'altro negli studi Sky News, a partire dalle 9 di mattina, cercando di spiegare ancora una volta, l'ennesima, le loro opposte ragioni. Prima Jeremy Corbyn e poi Theresa May. Stanca è apparsa il capo del governo inglese e incapace scaldare i cuori. I numeri sono al momento impietosi e appare improbabile che la bozza di accordo condiviso con Bruxelles possa passare il voto parlamentare. La strategia comunicativa del governo è rivolta alla gente comune, conquistare la base per costringere i deputati ribelli a ripensarci e supportare l'accordo.
Difficile ipotizzare possa aver successo se le performance saranno simili a quelle di ieri mattina. In alcuni passaggi sembrava di vedere il robot cui è stata spesso paragonata, una macchina che continua a ripetere incessantemente le stesse parole: questo è un accordo che consente di raggiungere ciò per cui la gente ha votato. Salvaguarda i posti di lavoro, l'economia. Protegge le famiglie. Paiono slogan da campagna elettorale. Ammette che «è stata una settimana dura, ma non ho mai pensato di abbandonare». E la settimana prossima tornerà a Bruxelles per parlare con Jean-Claude Juncker sul secondo documento dell'accordo, una dichiarazione politica sulla futura relazione tra Regno Unito e Unione europea che, come le ricorda la conduttrice, non sarà vincolante. Come invece saranno le quasi 600 pagine dell'accordo tecnico di uscita dall'Ue. Si rianima quando parla della lotta per la guida del partito e dei numeri che non sono a suo favore. Le 48 lettere di sfiducia che faranno partire la battaglia interna al partito conservatore non sono ancora state raccolte «per quello che ne so io». E lancia un monito, «il cambio di leadership non renderà le negoziazioni più facili e non cambierà l'aritmetica parlamentare». Rischia solo di aumentare l'incertezza, con il rischio che «la Brexit venga ritardata o vanificata». La mancanza di alternative è sempre stata una delle armi più potenti in mano alla premier inglese: o me o Jeremy Corbyn, ha per mesi ammonito i colleghi di partito.
La minaccia di un cambio di governo, nel caso di elezioni, anticipate, è incombente secondo i sondaggi. E non di un governo di centrosinistra liberale, di ispirazione blairiana, ma di un Labour tornato alle ricette economiche e sociali degli anni Settanta. Nazionalizzazioni, più tasse, interventismo statale spinto. Un partito sempre più plasmato dal suo leader, anche con riferimento alla posizione sulla Brexit. Il Labour di Corbyn non è a favore dell'Unione europea, nel 2016 non ha fatto campagna referendaria a favore del remain, e condivide con i conservatori le responsibilità politiche dell'esito del voto degli inglesi. Nell'intervista di ieri a Sky ha ribadito quanto ufficializzato nella conferenza di partito di Liverpool, a settembre: «Un secondo referendum è un'opzione per il futuro, non per l'oggi». Con buona pace dei manifestanti pro Europa che hanno marciato in 700mila per le strade di Londra qualche settimana fa. Nel caso di un secondo voto «non so cosa voterò», ha detto a Sky. L'Ue da cui Londra sta uscendo non è amata da Corbyn perché ritenuta troppo liberale. «I diritti dei lavoratori non sono protetti» in questo accordo, ha detto. Senza curarsi di rispondere all'intervistatrice che gli faceva notare che nella bozza Londra si vincola alle normative europee sui diritti dei lavoratori e la protezione dell'ambiente. Altro robot, altra propaganda.
Una minoranza di parlamentari labour è in contrasto con il segretario, in 25, al momento, potrebbero arrivare a sorreggere il governo. Non sarebbero sufficienti per far passare l'accordo in Parlamento, ma comunque non verrebbero ricandidati dal Labour alle prossime elezioni.
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