
C'è il nome: Rearm Europe. Il significato è noto: riarmare l'Europa. E fin qui, tutto nella norma. Se non fosse che Ursula Von der Leyen, sulla lettera che presenterà oggi ai leader dei 27 Paesi prima del Consiglio europeo di giovedì (con le opzioni per trasformare il fiume di parole sulla difesa comune in piano operativo che ridisegni l'architettura di sicurezza del Vecchio Continente) fa sapere che dev'esser letta come «parte della discussione». Insomma, messaggio chiaro: entriamo in una fase nuova, in cui è giunta l'ora per i leader di prendere il pallino in mano, se si vuol fare progredire le «ciance» degli ultimi due anni e mezzo (per non parlare di quelle degli ultimi 25). L'indicazione del governo Ue è cristallina. La scelta è - e dovrà essere - politica.
Si può tradurre così l'input di Ursula: mettersi d'accordo, aldilà delle dichiarazioni di intenti che seguono spesso i summit Ue. Un ruolo pratico la Commissione può svolgerlo con tre «leve». Per i finanziamenti, annuncia Von Der Leyen, Bruxelles sta lavorando per facilitare gli investimenti senza far sentire i morsi del rigore chiesto ai 27 proprio da Bruxelles. Sul piano nazionale, è prevista l'attivazione della clausola di salvaguardia in modo da scorporare le spese per la difesa dal Patto di stabilità e crescita. Bilanci puliti. E spesa «intelligente». Ci sarà poi la possibilità di usare fondi comunitari non ancora spesi, ad esempio del Pnrr o quelli di coesione (e per farlo serve solo la maggioranza qualificata) per progetti comuni; per esempio di «scudo» aereo. Ma è soprattutto sul piano finanziario che si sta già agendo a Bruxelles, togliendo di fatto quel velo di ipocrisia che ha avvolto i rifornimenti che da anni passano attraverso la Banca europea di investimenti (Bei), usata come un salvadanaio da cui attingere per progetti militari, con il «trucco» di dichiararli anche a scopo civile. Finora sempre alla chetichella. Per dar vita a una «banca del riarmo», invece, i tempi sarebbero più lunghi; comunque sul tavolo. L'invito ai leader è a creare un mercato unico della difesa. Friedrich Merz, cancelliere tedesco in pectore, vuole un accordo con l'uscente Scholz prima del Consiglio europeo. Sarebbe il caso, ha sottolineato Merz che giovedì sarà a Bruxelles per il vertice del Ppe, dire «la stessa cosa». Il puzzle va via via componendosi. Ieri primo segnale di spinta dai ministri della Difesa dei 5 Paesi con le industrie belliche (e gli eserciti) più avanzati d'Europa. Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania, Polonia si sono confrontati in videoconferenza in formato G5 anche sul sostegno all'Ucraina. Il gruppo si riunirà il 12 marzo a Parigi. Poi, a metà marzo, Ursula presenterà il cosiddetto Libro Bianco. Roma in pressing per il ricorso a Eurobond.
Resta da capire se si tratterà dell'ennesima bandierina, per la Commissione, per dire che usando molto inchiostro in fondo è come se l'ideale diventi già reale. Oppure se stavolta si avrà il pragmatismo che le circostanze richiedono. Acquisti comuni. Integrazione. Non solo politica, ma militare dell'industria europea, partendo da sistemi che oggi spesso neppure si parlano. Le minacce sono note, e l'Alto rappresentante Ue, Kallas, non ne fa mistero: sono russe.
E se ieri l'ambasciatore ungherese ha respinto una bozza sull'Ucraina che includeva ipotesi di garanzie di sicurezza per Kiev, nonché un nuovo pacchetto di aiuti, il premier Orbán ha fatto invece sapere che in Consiglio europeo non si opporrà alla magna charta del riarmo, allineandosi sulla difesa comune. Su quella a Kiev, anche la Slovacchia rifiuta di dare supporti militari, liquidando l'approccio di «pace attraverso la forza» come irrealistico.
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