Dal Buddha a Mazari, il ritorno dei barbari

Chi si balocca in disquisizioni da hater sulla liceità della "cancel culture", l'ossimoro preferito da quelli che pretendono di risolvere i problemi semplicemente strappando le pagine della Storia, ora può ritenersi soddisfatto

Dal Buddha a Mazari, il ritorno dei barbari

Chi si balocca in disquisizioni da hater in pantofole o sotto l'ombrellone sulla liceità della «cancel culture», l'ossimoro preferito da quelli che pretendono di risolvere i problemi (quali problemi, poi, se non le loro fisime ignoranti?) semplicemente strappando le pagine della Storia, ora può ritenersi soddisfatto. Perché ha sotto gli occhi la prova plastica, proprio nel senso di scolpita nel marmo o nella roccia, di che cosa significa portare alle estreme, e irreparabili, conseguenze quella linea di pensiero. Per l'ennesima volta, sotto il maglio dei talebani il nemico deve morire anche da morto. Deve morire, per sicurezza, anche nella memoria, collettiva o individuale. Così dopo il Buddha, venticinque anni fa (e sembra ieri), adesso è toccata la stessa sorte a Abdul Azi Mazari, il leader degli hazara ucciso dagli «studenti islamici» nel 1996. E sempre a Bamiyan, ormai ridotta a capitale mondiale della bestialità. La distanza di tredici o quattordici secoli che separava le statue di quel Buddha da quella di questo oppositore del gruppo armato, fra l'altro trucidato dopo averlo attirato nel tranello di a un falso colloquio di pace, per i nuovi-vecchi barbari è irrilevante. Sempre di eresia, si tratta. Il rituale è stato replicato come un disco rotto, risuona nuovamente nell'aria il ritornello dell'oscurantismo cieco e sordo. Il Buddha e Abdul Azi Mazari erano entrambi «idoli» degli «infedeli», e in quanto tali peccaminose figure da sopprimere.

Forse non sanno, i colpevoli degli ennesimi scempi, che anche la violenza è un idolo, anzi, il più subdolo degli idoli. Perché è l'unico che non ha il coraggio di misurarsi con gli altri sul loro terreno, quello dell'intelligenza.

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