Nel corridoio dei passi perduti di una Montecitorio semideserta nelle prime giornate afose del dopo Covid-19, ti trovi di fronte quello che non ti aspetti: un grillino che ti dice papale papale che Giuseppe Conte non è più insostituibile.
Alessandro Amitrano, napoletano, 5stelle di rigido rito «dimaiano» sentenzia: «L'unico dato nuovo è che Conte, a differenza di qualche mese fa, non è più insostituibile. L'aria è questa. Anzi, un fatto traumatico sull'esecutivo ora, favorirebbe un chiarimento definitivo dentro il movimento con quell'anima che ha (...)
(...) una sorta di idiosincrasia verso le responsabilità di governo. Qui l'unico che continua ad avere le idee chiare è Di Maio. Anche questa storia del Mes: io ho dei dubbi, ma se devi chiederlo, lo devi chiedere ora, non puoi procrastinare la decisione anche perché se a settembre torna il virus e non hai adeguato il nostro sistema sanitario a questa emergenza, la gente ti aspetta per strada. Puoi anche chiedere il Mes pretendendo dall'Ue un impegno pubblico e solenne che non ci saranno condizionalità né oggi, né mai».
Eh già, uno dei tabù del lockdown dei pretoriani giallorossi, cioè l'assenza di un'alternativa a Conte, sta venendo meno. Nelle cene romane in terrazza anche il ministro degli Esteri e già capo politico del movimento, non ha problemi a dire che «l'amato Giuseppe non è più l'ultima spiaggia di questa legislatura», che per il movimento l'importante non è l'inviolabilità del premier quanto il continuare in un'esperienza di governo. Inutile dire che Di Maio da settimane, se non mesi, tasta l'atteggiamento di eventuali maggioranze come l'attuale, o allargate, sul suo nome per Palazzo Chigi.
Altra novità è che il «totem» Conte ha perso l'aura sacrale pure nel Pd. Addirittura, Zingaretti immagina sotto sotto una «crisi» in tempi brevi e, ennesimo fatto nuovo, non rifiuta, come in passato, l'idea di mettere il suo nome tra i possibili candidati alla premiership. Anzi. «Perché no?», è la risposta che offre agli interlocutori quando gli pongono la questione. La ragione è semplice: ora la forza contrattuale del segretario del Pd sarebbe notevole; a settembre, dopo una probabile sconfitta alle regionali, sarebbe molto depotenziata, anzi, addirittura, Zingaretti, potrebbe ritrovarsi nello scomodo ruolo di capro espiatorio nel Pd qualora le urne si rivelassero tragiche. Inoltre alle strategie del leader pd a settembre, dopo le regionali, verrebbe a mancare anche l'arma della minaccia delle urne, perché con l'approvazione del referendum per la riduzione dei parlamentari già solo agitare l'ipotesi delle elezioni anticipate si trasformerebbe in uno scherzo.
Detto questo, l'atteggiamento di Zingaretti, riassume il giudizio negativo dell'intero Pd sul premier. Un «commis di Stato», molto introdotto nella sinistra, facendo il giro delle sette chiese tra i ministri del Pd ha tratto questa impressione generale: «Fino a quattro mesi fa Conte era considerato un intoccabile lì dentro, ora non ne possono più». La stessa sensazione che ha colto Maria Elena Boschi, nei suoi vari incontri con gli ex compagni di partito, di cui ha fatto partecipe lo stato maggiore di Italia Viva: «Far fuori Conte per il Pd non è più un tabù». Solo che, anche se non sembra, il Pd, quando deve passare dal pensiero all'azione, si ritrova diviso sulle strade da imboccare quasi come i 5stelle: c'è chi vorrebbe un Conte Ter con due vicepremier, uno del Pd e un altro grillino; chi, appunto, pensa a Zingaretti; chi tira in ballo Dario Franceschini, che non si sa se per tattica o per convinzione, si è defilato; e, infine, tra le soluzioni c'è il solito elenco di «esterni» che non può non cominciare con Mario Draghi.
Ed è questa «indecisione» l'ultima carta in mano a Conte. Un premier che più trascorrono le settimane e più si sente bersaglio di congiure. Solo che la paura e l'isolamento obbligano Conte a giocare la carta del rinvio, che, se da una parte gli conquista settimane o mesi di vita, nel contempo rende sempre più debole e logora la sua immagine. Un andazzo che non piace a Palazzo Chigi. «Non vorrei - si lamenta il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà che il caldo tirasse brutti scherzi» Mentre lo stesso premier si rifugia nel dire tutto e il suo contrario per galleggiare. «Ho frettissima nelle cose da fare» ha detto ieri dopo avere sposato per giorni la «tecnica» del rinvio per sopire le polemiche. In più ha abbondato in cucchiaini di miele per il Pd: «Con Zingaretti nessun gelo e considero la non alleanza tra pd e grillini alle regionali, una mia sconfitta».
Solo che le parole non bastano più. Anche perché i numeri cominciano a scarseggiare. In Senato, fronte debole della maggioranza, la campagna acquisti si è aperta in grande stile in vista delle grandi manovre estive. Renzi si è accaparrato un senatore di Forza Italia (Carbone) e punta a prendere un altro azzurro in pochi giorni. Salvini ha aperto le porte ai grillini dissidenti. Invece, il Cav si è messo alla finestra visto che, come per Mao, le situazioni confuse sono il suo habitat naturale: sull'ipotesi dell'ingresso in un nuovo governo non dice né sì, né no, mentre continua ad appoggiare l'ipotesi del ricorso al Mes. E già solo questo innervosisce Salvini: «È una posizione contro l'interesse nazionale».
Ma al netto di tutto questo, resta il fatto che oggi nessuno in Parlamento scommette sulla longevità del governo Conte. «Anni fa - è la profezia dell'azzurro Roberto Occhiuto - un governo tecnico-politico nacque dopo la nomina di Monti a senatore a vita. Ora ne nascerà un altro dopo la nomina di Berlusconi senatore a vita. Qui tra dieci giorni il governo cade». «Salta tutto - confida esterrefatta Rossella Muroni di Liberi e uguali - nei 5stelle non ci sono neppure le correnti, ogni parlamentare va per conto suo. Al Senato non riuniscono il gruppo altrimenti la maggioranza va sotto». «Qualcuno - scommette il leghista Garavaglia - ne uscirà con le ossa rotte: per sopravvivere questi non conoscono neppure l'arte delle mancette. E con la crisi di Conte tra i giallorossi tutti si candidano a premier».
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