La vendetta è un cappuccino servito freddo. Quello andato di traverso, per esempio, ieri mattina al direttore della Repubblica, Mario Calabresi. Che tutto si aspettava, dopo aver condotto quasi in porto un complicato piano di ristrutturazione interna, meno che il licenziamento in tronco da parte dell'editore. Al suo posto arriverà Carlo Verdelli (foto qui in basso), nato nella redazione milanese di Repubblica e cresciuto professionalmente in Mondadori, al Corsera, Vanity Fair e Gazzetta dello Sport, fino a ricoprire dal '15 al '17 l'incarico di direttore editoriale in Rai.
Presentatosi puntuale alla riunione di redazione mattutina, Calabresi non ha fatto mistero del proprio stupore: «Sono ancora sotto choc, è un pugno nello stomaco - ha detto -. Mi mandano via, senza un perché...». Di «perché» in realtà ce ne potrebbero essere tanti, almeno a sentire molti dei giornalisti di Repubblica che in questi tre anni di direzione hanno sofferto molte delle sue scelte organizzative, nonché il suo sicuro «presenzialismo»: non nella redazione di largo Fochetti, però, quanto ovunque in giro per lo Stivale e oltre. Viaggi, convegni, presentazioni di libri e festival, più un week-end sacro che - a detta dei più maligni - si è vieppiù allungato, dal venerdì al martedì, quasi a testimoniare una certa «visione» del giornalismo «fatta più di apparenza e vanità personale che di sostanza». La sostanza, ovvero la fattura del giornale, era demandata alla «macchina» routinaria dei cosiddetti «culi di pietra», con alcuni punti saldi: buon impianto grafico (la riforma di Francesco Franchi, assai elegante, si è rivelata forse poco incisiva); grande zelo in una linea politica per parecchio tempo occhiutamente ancorata ai «mille giorni» di Matteo Renzi; molta sufficienza nei confronti dei «mostri sacri», quali il fondatore Eugenio Scalfari prima e il suo successore Ezio Mauro poi; infine poca cura per la qualità (e attendibilità) delle notizie. Viceversa, massima è stata l'attenzione per lo sviluppo di iniziative «innovative», anche coraggiose, che però non hanno frenato a sufficienza la costante emorragia di copie vendute.
Ma qui si apre un altro capitolo, perché il direttore postava alle 11.19 la notizia della sua defenestrazione su twitter rivendicando con orgoglio «di lasciare un giornale che ha ritrovato un'identità e ha un'idea chiara del mondo. I lettori lo hanno capito, la discesa delle copie si è dimezzata: era al 14 ora è sotto il 7».
Calabresi sibilava un «lo hanno deciso gli editori» in cui trapelava tutto la sua ira nei confronti presumibilmente del presidente onorario della Gedi, Carlo De Benedetti, che giusto un anno fa aveva pubblicamente dichiarato in tv di non condividere granché del lavoro svolto dal figlio del commissario Calabresi, attribuendogli non soltanto il calo di appeal e di vendite del quotidiano, ma soprattutto un annacquamento in eccesso della storica impronta identitaria. Aveva concluso in maniera lapidaria, don Carlo: «Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare, se non ce l'ha non se lo può dare». Trecentottanta giorni dopo, il mesto epilogo.
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