Fase uno, gestire con i piedi e perdere soldi per un patrimonio che in teoria si dovrebbe vendere da solo. Fase due, proprio a causa della cattiva gestione, dare via i gioielli di famiglia in condizioni di mercato poco favorevoli. Fase tre, battere cassa a spese dei contribuenti, non solo romani. Nei primi del Novecento James Joyce visitò Roma e paragonò la Capitale a «un uomo che si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna». Se tornasse oggi si sorprenderebbe perché i romani contemporanei (o meglio le loro classi dirigenti) non sono nemmeno in grado di sfruttare l'eredita del passato, almeno per quanto riguarda il patrimonio immobiliare pubblico.
Per contro, una delle attività in cui le giunte sono diventate bravissime è quella di ottenere dal governo centrale la copertura dei buchi. Il Comune di Roma ha un disavanzo strutturale di 550 milioni di euro, secondo il sindaco Ignazio Marino. Ma un anno fa Ernst&Young calcolò un rosso di 1,2 miliardi all'anno, considerando le partecipate.
In soccorso dell'amministrazione capitolina arriva puntualmente il governo attraverso la legge di Stabilità sotto forma di «Salva Roma». L'ultimo aiuto, del governo Renzi, è da 570 milioni di euro, cifra - tenne a precisare l'esecutivo e anche il Campidoglio - è solo l'anticipo di somme dovute e questa volta è legato a un piano di rientro. In cambio di una pezza sui bilanci del 2013 e 2014, il governo ha chiesto al sindaco Marino un piano di dismissioni e tagli alla spesa corrente. Il sindaco ha replicato annunciando una spending review da 440 milioni e il riordino delle società partecipate, ma battendo di nuovo cassa per 110 milioni per coprire i costi di Roma in quanto Capitale.
Se Roma avesse gestito in modo decente il suo patrimonio, non ce ne sarebbe stato bisogno. Sul fronte delle spese sicuramente. L'amministrazione capitolina, tanto per dare un'idea, ha 62mila dipendenti, contando sia quelli del Comune sia quelli delle società partecipate. Ma avrebbe potuto fare molto anche sulle entrate non fiscali, a partire da quelle sul mattone.
Fa un certo effetto scorrere la lista dei beni immobili che il Campidoglio ha deciso di dismettere. Perché si tratta di appartamenti in zone di pregio, anche in pieno centro che fino ad ora erano state affittate per importi assimilabili a quelli di un posto motorino. Un patrimonio buttato in una città che è in rosso cronico e non fa nulla per non esserlo.
Quindi 81 metri quadri in via del Colosseo, occupati «senza titolo» valgono 1.600 euro. Non al mese (questo sarebbe una locazione a prezzi di mercato), ma all'anno. Poco più della metà di quanto si paga l'affitto di un box auto in periferia, per avere una misura. C'è via dei Vascellari, in pieno Trastevere, dove 40 metri quadri costano 490 euro all'anno. Sul mercato turistico con la stessa cifra si copre una sola settimana. Viene da domandarsi se il locatario, ufficialmente in stato di bisogno, non abbia avviato un business facendo la cresta a spese dei contribuenti. Chissà se è in stato di bisogno anche chi sta pagando 7.500 euro all'anno per 230 metri quadri in via Monte della Farina. A due passi da via dei Giubbonari.
Dal dettaglio ai conti generali. Ogni anno il Comune incassa realmente 29,8 milioni di euro dall'affitto di 59.466 immobili. Sono circa 500 euro all'anno per ogni appartamento o casa affittata. E già questo dà la misura della gravità della situazione. Nel complesso l'incasso (che varia di anno in anno) serve appena a coprire i 21,3 milioni che lo stesso comune paga ai privati dai quali prende case in affitto. Quelle di sua proprietà non bastano, visto che sono in larga parte occupate da abusivi.
Se si considera che i canoni pagati sono, come minimo, un decimo di quelli di mercato, è anche facile calcolare quanto incasserebbe il Campidoglio se fosse un padrone di casa scrupoloso.
Quasi 300 milioni di euro ogni anno. Esattamente la cifra che il sindaco Marino si aspetta di incassare, una tantum, dalla loro vendita.Sono i beni edilizi di proprietà del Comune di Roma Capitale: tra questi, 598 sono a uso non residenziale.
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