Caro amico,
è proprio così che ti spacciavi agli amici e conoscenti che volevano sapere se stavamo insieme. In effetti, erano increduli dinanzi all'incolmabile distanza tra il mio sguardo, nudo e perso nel tuo, e quei tuoi occhi, blu come il più lontano degli abissi, gelidi e impenetrabili a qualsiasi forma di luce, di vita.
E amica era l'aggettivo che per anni hai destinato a me.
Una parola che ancora oggi, dovunque la senta pronunciare, risuona sorda e insistente nel mio cuore, come un'eco implacabile. Che distrugge i pensieri e smuove i ricordi.
Dovrò assistere ancora qualche volta al susseguirsi delle stagioni prima di riacquistare la lucidità per comprendere appieno che l'amicizia è il più potente dei sentimenti, e non l'impulso malsano e perverso al quale mi avevi abituato.
Ho dovuto fare i conti per anni con l'ago della bilancia, la cui inesorabile discesa andava di pari passo con il precipitare della mia autostima.
Notti buie e interminabili sono dovute passare prima che il bagliore della luna riuscisse finalmente a far luce sulla cruda realtà e a mostrarmi chi avevo realmente davanti.
Un amico? Un uomo? Un amante? No. Niente di umano, niente di paragonabile a chi è dotato di anima.
Un abile stratega, forse, che con lucidità feroce ogni giorno attuava le sue tattiche di annientamento. E con grande successo.
Ero rapita dal tuo grande interesse per me. Ero commossa dalle tue attenzioni ossessive. Ti ero grata delle critiche per ogni dettaglio. Mi sentivo al centro del tuo mondo per la voglia che avevi di rendermi migliore. La migliore. Criticavi, con grazia e persino ironia, ogni atteggiamento del mio dire e del mio fare. Anche del mio vestire.
Ma più venivo sminuita da te, e più, destabilizzata e confusa, a te mi legavo. Più venivo umiliata, e più ti ero riconoscente: da amico quale eri, cercavi di rendermi perfetta, pensavo e credevo.
***
Ma quale amico si comporta di notte come il più possessivo e fugace degli amanti, e di giorno, ora lo posso dire, come il più spietato dei boia?
Quale amico si mostra presente e attento, così rendendosi indispensabile all'altro, quasi convincendolo della sua più completa inutilità e facendolo per sempre schiavo del proprio gioco perverso? Quale amico può essere così malvagio da mettersi completamente a nudo, dal confessare all'altra ogni suo dolore, paura, frustrazione, all'unico scopo di suscitare in lei il senso di colpa? Colpa per essere stata più fortunata, per aver vissuto una vita serena, circondata da tutti quegli affetti di cui il carnefice, a suo dire, aveva dovuto fare a meno.
Sì, perché ora penso che sia stato questo - la gioia bieca di essere il mio carnefice - l'unico motivo per il quale, nell'evanescente luce di quell'alba irlandese, hai deciso di raccontarmi della depressione di tuo padre, del buio che ha avvolto la sua vita fin dalla tua nascita e dei suoi innumerevoli tentativi di trovare la luce altrove. O del senso di colpa che ti ha attanagliato fin dai tuoi primi anni di vita, convinto come eri di essere il responsabile del suo dolore. E di quello di tua madre, che se quel giorno avesse avuto un po' più di pelo sullo stomaco avrebbe potuto seguire il suo istinto, arrestare quel battito tenace che sentiva dentro di sé, lasciare suo marito e rifarsi una vita.
***
È stato dunque solo per soggiogarmi per sempre a te, che quella notte, piangendo come un bimbo al quale nessuno aveva mai asciugato le lacrime, mi hai pregato di salvarti, di permetterti di saziarti di me.
Un «permesso» che, ovviamente, ti ho concesso incondizionatamente, destabilizzata come ero in quel limbo dove mi avevi gettata: un limbo fatto di confusione mista a gratitudine per il nobile compito che mi avevi assegnato. Un territorio nel quale i tuoi viscidi sistemi «educativi» mi avevano resa frustrata, triste, tormentata e insicura.
Tuttavia, non riuscivo a dare un nome a quel sentimento incontenibile che mi cresceva dentro, e che tu continuavi a chiamare amicizia. Ma mi avevi donato la tua fiducia, rendendomi l'unica custode del tuo «io» più profondo, e io non potevo non dimostrarti di essere all'altezza dell'incarico ricevuto.
Del resto, tu conoscevi bene le mie debolezze, il mio perpetuo bisogno di sentirmi necessaria e indispensabile per qualcuno, la mia ossessione di saziarmi dell'immagine di me che vedevo riflessa negli occhi degli altri. Di tutto questo ti sei sfamato, come il più feroce dei predatori fa con la più indifesa delle vittime. Io.
Inerme, come sa essere solo chi ama perdutamente, cioè al punto da perdere la concezione di sé.
Disarmata, come chi trascorre le sue giornate nell'attesa spasmodica di quel fremito irrinunciabile che c'è nell'unione carnale di due corpi.
Debole, come chi riesce a sentirsi viva solo sotto l'effetto stupefacente dell'essere posseduta da un altro corpo, dell'abbandonarsi completamente al piacere dell'altro, unica fonte del proprio piacere.
Volevo vivere tra le carezze del nemico, senza percepirne la crudeltà. Ero maltrattata dalla violenza delle tue parole e del tuo fare, e mi sentivo importante.
***
Esattamente come ogni carnefice conosce alla perfezione la sua preda, tu conoscevi tutto di me. Da amico quale ti eri finto per anni, eri riuscito a guadagnarti la mia fiducia senza sconti. A entrare dentro quel nucleo più profondo che rappresenta l'epicentro di ogni essere umano: quel nocciolo che ognuno di noi dovrebbe custodire gelosamente come il più intimo dei segreti e preservare da qualunque ingerenza esterna.
Io non l'ho fatto.
E così, mi sono assuefatta, prima alla tua violenza mentale, poi al tuo egoismo, via via trasformatosi in disinteresse, indifferenza.
Ho iniziato a considerare normali i tuoi silenzi. Quei silenzi più aggressivi di ogni forma di violenza fisica, più destabilizzanti e crudeli di ogni parola, più dolorosi di ogni lacrima. Sempre ostinata nello starti accanto, certa dell'onestà di quel sentimento di «amicizia speciale e inspiegabile» di cui ogni giorno ti fregiavi, della sincerità delle parole che continuavi a ripetermi ossessivamente, a cui io continuavo a credere, nel mio delirio di rovina.
***
E così ho fatto, anche quando i silenzi si sono trasformati in assordante indifferenza. Anche quando quel corpo caldo, che per pochi istanti ogni notte rappresentava la mia linfa vitale, si è trasformato in un gelido blocco di marmo, ancor più pregiato perché per me impenetrabile.
Non mi è bastato nemmeno essere buttata via. E per ben tre volte.
Anche se mi obbligavi a una perenne e distruttiva competizione con altre donne, se mi umiliavi con le tue fughe affettive, dettate da un'ossessiva attrazione per il nuovo, alla fine tornavi da me. E a me questo bastava. Anche se l'unica rassicurazione che eri in grado di offrirmi era la certezza che io non rappresentavo per te «un'amica come le altre»: ero molto di più, l'unico essere sulla terra in grado di «farti ridere come non avveniva nemmeno da bambino», l'unica capace di «far bene alla (tua) anima», l'unica che ti aveva finalmente permesso di sentirti «vivo». Mi bastavano queste tristi consolazioni, anche se sapevo che dopo poco avresti ricominciato ad avvelenarmi con quell'opera di denigrazione e svalutazione che io, credendo amore e volontà di migliorarmi, ormai consideravo normale.
***
Sono dovuta arrivare all'esasperazione per riuscire a liberarmi di te e del tuo gioco crudele. Mi sono dovuta sentire respinta sessualmente per capire che non ero più disposta a sopportare.
Se, infatti, sono riuscita senza difficoltà a tollerare di sentirmi usata da te, di essere lo strumento del tuo fulmineo piacere quotidiano, non ho potuto accettare di sentirmi trasparente, inutile a tal punto da non poter rappresentare più nemmeno il tuo momento di piccolissimo sfogo giornaliero. Se non sono riuscita ad ascoltare il mio cervello, maltrattato dalla tua perversione, almeno sono stata in grado di sentire il mio corpo e di affidarmi alle sue pretese. Un corpo giovane e desiderabile, che non poteva essere annientato dalla violenza del rifiuto.
E l'incubo è finito.
A quel punto, è bastato un attimo per staccarmi da te.
Per cogliere finalmente quella spavalda leggerezza del tuo essere, quell'egoismo irriducibile, reso ancora più inquietante dalla superficialità di chi è incapace di amare; di chi rifugge a tal punto anche solo il suono di questa parola, da dover ricorrere ad altri termini per definire il sentimento che da sempre anima la vita di ogni uomo. Di chiunque sia degno di essere chiamato tale.
A quel punto, è stato più che naturale cercare di restituire finalmente alle parole «amore», «coppia», ma soprattutto «amicizia», il loro vero significato.
E ti ho lasciato.
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