Quando ha terminato la laurea in Conservazione dei Beni Culturali si sentiva spaesato. Non aveva pensato al dopo. Il suo ultimo obiettivo era laurearsi. Una vita la sua, cresciuta in mezzo alla natura, la nonna Ermelinda seguita in cucina, l'amore per la terra, il nonno nei campi. Ma la prospettiva di un futuro senza natura e senza manualità lo spaventava. E così terminati gli studi, si iscrive a un corso di cucina trasportato da quella passione che la nonna gli aveva trasferito.
Stefano Polato, di Monselice nel padovano, del 1981, ora è lo chef stellare, il cuoco degli astronauti. In un mondo dove nessun errore è ammesso. «Chi è qui per passione, può pure alzarsi e andarsene!», gli aveva detto il maestro a quel primo corso di cucina. E Stefano che riflette sull'etimologia di qualsiasi parola, ha subito pensato che la passione sia una sorta di attrazione, ma se perdi il controllo, la passione diventa patimento. E infatti, a 12 mesi dall'inaugurazione del suo primo ristorante, perde il controllo. Le rate da pagare, l'attaccamento al lavoro, il non avere un briciolo di tempo libero. La sua passione lo stava mangiando. Appunto. Un giorno si imbatte in un libro «Mangia che ti passa» e scopre che ciò che mangiamo è in grado di influenzare i nostri geni. «Sentir dire così per un cuoco - racconta Polato al Giornale - è spaventoso». Allora cominciano a passargli davanti tutti i clienti del ristorante, e lui si sente dannatamente responsabile della loro salute. «Quando somministro un piatto - dice - non sto solo somministrando cibo, ma salute». E così per fare chiarezza, per procedere con calma, per scavare dentro se stesso su cosa fosse veramente necessario fare, inizia a contattare medici, biologi, nutrizionisti, dietisti. Non si piange addosso e il tempo passato ad aspettare i clienti lo investe per ampliare i propri contatti. «Le possibilità - dice - sono sempre due: rimanere soffocati o avere pronte nuove strade da poter intraprendere». Come quella scimmietta nella favola di Esopo a lui cara. Un giorno si imbatte in Filippo Ongaro, medico degli astronauti dal 2000 al 2007, nutrizionista, tra i primi ad avvicinarsi alla medicina anti-age. Ongaro lo chiama e gli dice che gli avrebbe telefonato un'amica. I giorni passano. La scimmia non soffoca. Un giorno squilla il telefono. L'amica era Samantha Cristoforetti. «Sono un'astronauta - le dice Samantha - e sono in preparazione per una missione spaziale, mi servirebbero dei piatti pronti da portare con me». Stefano mantiene il sangue freddo, «quello non era un treno, era un missile». Un missile da prendere al volo. Un missile che lo porta a dirigere lo Space Food Lab dell'agenzia aerospaziale Argotec di Torino. Qui prepara i piatti per gli astronauti, li studia, si confronta. Un team di esperti dove l'errore per chi si trova a dover affrontare un viaggio nell'universo non è ammesso.
«I parametri che uso - racconta - sono cibi cotti a bassa temperatura e liofilizzazione. Mi sento responsabile della salute delle persone e occorre tenere conto dei processi chimici e fisici. La regola numero uno è che non puoi sbagliare». Stefano, che ora sta fondando un movimento «Cibo Vivo», prepara i piatti, anzi le buste. Dove mangiano gli astronauti. I piatti sono come quelli sulla terra. La Cristoforetti gradisce i piatti unici. Luca Parmitano, ora in missione, si è portato la lasagna alla bolognese, la parmigiana di melanzane e il tiramisù.
«Si fa il piatto - dice Polato - lo si liofilizza e si imbusta oppure si applica la termostabilizzazione, cioè si stabilizza il prodotto a temperatura ambiente. Il tutto deve essere abbastanza umido, non ci devono essere parti che svolazzano un giro».
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