Chiuso il caso Macchi: ergastolo per Binda a 31 anni dal delitto

Pena massima per l'ex compagno di liceo che uccise la giovane con ventinove coltellate

Chiuso il caso Macchi: ergastolo per Binda a 31 anni dal delitto

Un cold case lungo 31 anni, un processo durato 12 mesi, un'attesa infinita per una madre che si è vista massacrare la figlia di 20 anni. Per la Corte d'assise di Varese, l'assassino di Lidia Macchi è Stefano Binda. E il 50enne di Brebbia, ex compagno di liceo della vittima, deve scontare l'ergastolo. Alla lettura della sentenza la mamma di Lidia Paola Bettoni si siede, provata. Non può che pensare alle 29 coltellate inferte alla figlia: «Non meritava di morire in quel modo». Su Binda: «Ho sempre chiesto il colpevole, non un colpevole a caso. Dopo quello che è venuto fuori al processo, non ho dubbi che il colpevole sia lui».

Paola Bettoni uscirà dal tribunale in lacrime sorretta dai figli Alberto e Stefania. Poco prima ha ricevuto l'abbraccio del sostituto procuratore generale di Milano Gemma Gualdi, che ha sostenuto l'accusa e aveva chiesto per l'imputato il carcere a vita. La camera di consiglio dei giudici presieduti da Orazio Muscato è durata circa quattro ore. La Corte ha escluso a carico di Binda l'aggravante dei motivi futili e abietti, mentre ha ammesso quella della crudeltà. Binda, che era in aula, è rimasto in silenzio guardando sbigottito il pubblico. «È un giorno di sollievo, perché finalmente è stata stabilita una verità processuale che corrisponde a quella storica - ha spiegato il sostituto pg -. È un giorno di dolore per tutti, per i famigliari della vittima ma anche per il colpevole. Ma è un'affermazione dello Stato e di tutte le persone che hanno voluto la verità». Era stata proprio la Procura generale di Milano, con l'allora sostituto Carmen Manfredda, a riaprire il caso Macchi e ad arrestare Binda nel gennaio 2016. «Da una parte sono contenta - ha aggiunto la madre della studentessa di Varese uccisa nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987 -, dall'altra penso a una mamma che si trova con un figlio in una situazione così». L'avvocato della famiglia, Daniele Pizzi: «Dopo trent'anni aspettavamo una sentenza, penso sia giusto innanzitutto per Lidia, per i suoi famigliari e per chi la conosceva». Stupiti e «annichiliti» invece i difensori Sergio Martelli e Patrizia Esposito, che avevano chiesto l'assoluzione: «Siamo in coscienza convinti che la soluzione adottata sia ingiusta. Non c'erano elementi per una condanna, quindi aspettiamo le motivazioni (tra 90 giorni, ndr) e vedremo. Andremo avanti».

La Corte d'assise ha stabilito un risarcimento alle parti civili di oltre 17mila euro e una provvisionale di 200mila euro per la madre di Lidia e di 80mila per ciascuno dei fratelli. Il processo per l'omicidio della 20enne, colpita a morte nel bosco di Sass Pinin vicino all'ospedale di Cittiglio dove era andata a trovare un'amica, è stato da molti punti di vista indiziario. Per stessa ammissione della parte civile soprattutto a causa della distruzione dei vetrini con il Dna dell'assassino prelevato dal cadavere nella prima autopsia. Le recenti analisi sui resti riesumati avevano trovato quattro capelli di un uomo ignoto. Il profilo genetico non è quello dell'imputato. La svolta nelle indagini è arrivata due anni fa quando la super teste Patrizia Bianchi, vecchia amica di Binda, ha riconosciuto la grafia dell'uomo nella lettera In morte di un'amica.

Inviata alla famiglia il giorno del funerale e considerata dagli inquirenti una vera confessione. Infine l'alibi. Binda aveva sostenuto di trovarsi a Pragelato in Piemonte con un gruppo di Cl (ne faceva parte anche la vittima) nel giorno fatidico. Non aveva però fornito dettagli sulla vacanza.

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