San Paolo Non ha pace il Cile ripiombato da una settimana piombato in un clima di inizio anni 70. Ieri la prefettura di Santiago ha confermato che il numero delle vittime è salito a 11, distrutte il 70% delle stazioni della metropolitana, 250 sportelli bancari e migliaia tra negozi, farmacie, supermercati e immobili nelle violente proteste estese ormai a tutto il paese.
«Siamo in guerra contro un nemico poderoso, implacabile, che non rispetta nessuno e che è disposto a usare la violenza e il crimine senza limiti, che è disposto a bruciare i nostri ospedali, la metropolitana, i supermercati, con l'unico scopo di produrre il maggior danno possibile», ha dichiarato ieri il presidente Sebastián Piñera in diretta tv. Poi si è rivolto alla cittadinanza affinché rimanga «unita in questa battaglia che non possiamo perdere» né «possiamo permetterci che i violenti ed i delinquenti si sentano padroni del nostro paese». Parole alle quali hanno risposto a stretto giro di posta prima il generale Javier Iturriaga, a capo della Difesa Nazionale, che ha chiarito di «non essere in guerra con nessuno» e poi Katia Rubilar, il prefetto dell'area metropolitana di Santiago, secondo la quale il Cile non è in guerra ma «in una fase di ricostruzione». E anche se il ministro degli Interni, Andres Chadwick ha appoggiato le parole di Piñera perché «dimostrano l'autorità con cui vogliamo combattere questo vandalismo» (ieri sono stati 110 i supermercati saccheggiati e distrutti, ndr) e nonostante la portavoce del governo Cecilia Pérez abbia assicurato «unità assoluta contro i violenti» da parte dell'esecutivo, è chiaro che il presidente sta vivendo il momento più difficile della sua carriera politica e il Cile la sua crisi peggiore dal ritorno alla democrazia. Duro il comunicato degli indios Mapuche che hanno giustificato le violenze con «il legittimo diritto alla ribellione da parte del popolo cileno oppresso» e criticato il ricorso ai militari che loro ritengono «responsabili del genocidio del nostro popolo e dei massacri contro la classe lavoratrice e i settori popolari organizzati».
Di certo c'è che, al momento in cui andiamo in stampa, il numero degli arrestati è salito a 1.900, 8 i feriti gravi mentre è aumentato a 10.500 il numero di soldati e carabinieri mobilitati per spegnere la «fiamma rivoluzionaria» che incendia Santiago oramai da 5 giorni. Sinora tutto inutile, anzi, ieri nel centro della capitale i manifestanti non solo hanno occupato Piazza Italia lanciando sampietrini senza sosta ma anche Avenida Providencia, dirigendosi verso la periferia. Dal canto suo l'ex presidente Michele Bachelet, oggi Alto commissario ONU per i Diritti Umani, ha «lamentato morti e feriti», ha chiesto «inchieste minuziose sulle violenze da entrambi i lati» e, soprattutto, ha invitato Piñera «a dialogare con tutti i settori della società per soluzioni che aiutino a calmare la situazione e cercare di affrontare le lamentele sociali della popolazione nell'interesse del paese». Non dialoga invece la CUT, il principale sindacato cileno, che ha indetto per domani uno sciopero generale perché «il presidente non capisce le ragioni di fondo della protesta popolare» mentre dalle 10 di oggi a paralizzarsi è il sindacato dell'Unione Portuaria, il che mette a rischio l'import export nei 20 principali porti cileni.
Le rivendicazioni? Le stesse del locale Partito Comunista, ovvero Piñera si dimetta e voto
anticipato. Intanto sono apparsi anche a Santiago i «gilet gialli» solo che, a differenza di Parigi, qui sono gruppi di quartiere di cittadini autoconvocatisi per proteggere i negozi dai saccheggi dagli attacchi vandalici.
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