A Pechino si apre il congresso del partito comunista cinese e a Hong Kong cominciano a preoccuparsi. Ne hanno ben donde. Retorica nazionalista e fedeltà assoluta alla linea di Xi Jinping sono i cardini della massima assise del partito, rinviata di oltre due mesi a causa dell'epidemia di coronavirus esplosa a Wuhan: e questo implica una serie di conseguenze assai concrete, una delle quali ricadrà sulle spalle dei cittadini di Hong Kong, che nei dodici mesi precedenti la pandemia avevano sfidato fin troppo (secondo Pechino, ovviamente) la pazienza del loro dominus cinese. Il resto riguarderà soprattutto altri due temi: il Covid, con Xi che suonerà la grancassa della grande vittoria popolare guidata dal partito nella guerra al virus, e gli scenari internazionali, con la tensione montante tra Pechino e Washington. E qui sarà la ferita riaperta della questione di Taiwan a fornire al partito benzina nazionalista contro i rivali americani del detestato Trump.
Torniamo a Hong Kong. I media di Stato cinesi anticipano la linea dettata da Xi: la tolleranza verso il dissenso è finita, imporre nella ex colonia britannica ribelle la legge nazionale cinese sulla sicurezza è «altamente necessario». I nemici, sostiene la propaganda comunista, si chiamano secessionismo, interferenze straniere (cioè americane e britanniche), terrorismo e sovversione antigovernativa. Nella pratica, il governo cinese si appellerà a ragioni di sicurezza per far modificare la mini Costituzione di Hong Kong e inserirvi leggi nazionali cinesi ad hoc: ciò vorrà dire libertà d'azione per la polizia e l'esercito contro i dimostranti, processi in base alla legge cinese e non più locale, strangolamento delle libertà civili fondamentali: quelle di stampa, di parola, di assembramento che in Cina non esistono. Un incubo che la stampa libera di Hong Kong denuncia fintanto che le è possibile: lo slogan diretto al mondo dai media e dalle associazioni per i diritti umani per ottenere attenzione e sostegno è «Oggi a Hong Kong, domani in tutto il mondo». E prima che altrove a Taiwan, la Cina nazionalista indipendente di fatto sull'isola di Formosa che Xi intende annettere con la forza appena le circostanze lo permetteranno, ignorando la volontà dei suoi 23 milioni di abitanti che vivono, come e più di quelli di Hong Kong, in un mondo libero.
Taiwan sarà certamente uno dei temi di cui il congresso comunista, che si chiuderà il 28, si occuperà. Dopo la sfida americana, con il segretario di Stato Mike Pompeo che andando a complimentarsi con la presidente indipendentista di Taipei ha apertamente ignorato l'impegno del suo governo ad accettare il dogma sull'esistenza di una sola Cina, Xi ha gridato la sua collera e promesso dure conseguenze. Che potranno facilmente assumere la forma di una maggiore attività militare cinese attorno all'isola anticomunista, ma anche in quel Mar Cinese Meridionale che Pechino sta trasformando in un mare nostrum irto di basi aeree e navali costruite su piccole isole ignorando le leggi internazionali.
Tutto questo farà parte di una propaganda nazionalista che Xi da tempo alimenta a tutta forza, e che si scatenerà al congresso comunista anche sul tema della «guerra di popolo vinta contro il coronavirus»: simbolicamente, Xi si è presentato in Parlamento senza mascherina.
Se poi dovessero davvero arrivare le sanzioni minacciate da Trump in rappresaglia alla diffusione negli Stati Uniti del «virus cinese», il partito è pronto a contromisure: «Non accetteremo di farci infangare ha detto il portavoce del Parlamento e respingeremo ogni richiesta di indennizzo».
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