Quando il presidente degli Stati Uniti convoca un summit mondiale della democrazia, non lo fa semplicemente per ribadire il ruolo guida del suo Paese in quello che ai tempi della guerra fredda si definiva il mondo libero. Il contesto internazionale di oggi è molto diverso, e non solo perché non esiste più un impero sovietico: gli Stati Uniti e i loro alleati devono fare i conti con potenze rivali che non si limitano a contendere l'egemonia mondiale all'Occidente, ma sfidano il suo stesso concetto di democrazia liberale. Stiamo parlando della Cina dell'imperatore rosso Xi Jinping e, in misura minore, della Russia ormai apertamente autocratica di Vladimir Putin.
Entrambe rifiutano la pretesa americana di rappresentare un esempio di sistema politico cui ispirarsi in tutto il mondo, e pretendono che i loro sistemi illiberali non solo vengano rispettati come altrettanto legittimi, ma addirittura considerati come alternative preferibili. La propaganda di Pechino, dunque, riduce il summit delle democrazie organizzato da Joe Biden a un tentativo di conservare l'egemonia in un ordine mondiale che la Cina comunista vuole sovvertire: l'idea è quella di mettersi alla testa di una coorte di Paesi minori tributari di Pechino, fingendo che all'egemonia americana si sostituirà non quella cinese, ma una situazione utopistica in cui la voce dei piccoli conterà come quella dei grandi. Dietro questa favoletta c'è l'eterna «verità» marxista, ribadita anche di recente da un Libro Bianco del Partito comunista cinese in cui si legge che i diritti umani non sono quelli alle libertà politiche, di pensiero e di espressione, giudicati astratti e borghesi, bensì quelli assai più prosaici e concreti del benessere materiale garantito a tutti, del diritto al lavoro e a una presunta parità di genere (ovviamente all'interno del recinto stabilito dall'onnipotente Partito, garante per definizione dell'interesse collettivo).
Quanto alla Russia, ormai allineata con il rango di potenza vassalla alla più potente Cina, basta come sempre dare un'occhiata al suo canale di propaganda televisiva RT per capire quale sia la linea data da Putin: i notiziari vengono aperti da un bel sondaggio condotto in sedici Paesi occidentali (Italia inclusa), dal quale ovviamente risulta che a larga maggioranza le rispettive opinioni pubbliche non riconoscono la pretesa degli Stati Uniti di porsi a guida delle democrazie mondiali. E non passa settimana senza che il Cremlino non esiga di veder rispettata la sua «idea diversa di democrazia», la cosiddetta democrazia guidata in cui un leader assoluto abbastanza furbo da non cercare il culto della sua personalità tappa la bocca in nome della «stabilità» a ogni reale opposizione (Navalny), lasciando in piedi solo quella formale destinata a perdere regolarmente elezioni truccate.
Queste due idee simili e in qualche modo complementari di democrazia alternativa offrono in questi giorni ottimi esempi della propria vera natura. Ecco dunque, in Cina, la condanna al carcere di tre noti attivisti democratici di Hong Kong per aver partecipato alla veglia pubblica in memoria del massacro di Tienanmen: tra loro c'è l'editore Jimmy Lai, che in quell'occasione nemmeno prese la parola; ed ecco emergere le prove della persecuzione della minoranza musulmana uigura per ordine dello stesso Xi.
Quanto alla Russia, oltre al dito sul grilletto contro l'Ucraina, basta ricordare l'esodo continuo all'estero dei collaboratori di Navalny per sfuggire agli arresti e la crescente stretta sulla libertà di accesso a internet.
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