Ormai il dialogo tra Washington e Pechino è solo apparenza. Un apparenza delegata ieri al segretario di Stato Antony Blinken. A lui è toccato l'ingrato, ma inutile, compito di confrontarsi telefonicamente con il direttore della Commissione Affari Esteri del Partito Comunista Cinese, Yang Jiechi. Una telefonata intercorsa mentre all'apertura del G7 il presidente Joe Biden e i suoi continuavano la campagna per convincere i paesi europei a seguire gli Usa nella politica di contrapposizione a Pechino e Mosca. Ma la telefonata era chiaramente una pezza inadeguata a sanare una ferita ormai troppo profonda. Anche perché mentre Blinken colloquiava con Jiechi un rapporto britannico accusava Pechino di aver fatto carne di porco degli accordi su Hong Kong e Amnesty International dipingendo come uno «scenario infernale e distopico» la campagna di repressione e deportazione di uighuri e altre minoranze musulmane.
E a moltiplicare la furia di Pechino s'aggiungevano i colloqui tra la rappresentante Usa per il Commercio Katherine Tai e Taiwan. Colloqui rivolti a definire un accordo su commerci e investimenti con l'isola che Pechino continua a considerare roba sua. E così il segretario di Stato Usa alla fine porta a casa soltanto dei sonori due di picche. Per Pechino infatti i rapporti tra gli Usa e Taiwan restano talmente «inaccettabili» da spingere il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin a definirli «una minaccia per la pace e la stabilità». Ma a far infuriare ancor di più il Dragone è l'insistenza di Blinken nel ribadire la necessità di scoprire le reali cause del Covid 19 accordando maggior libertà d'indagine ad una nuova missione dell'Oms. Richiesta che Yang Jiechi considera «assurda» quanto l'ipotesi della fuoriuscita del coronavirus, dall'Istituto di Virologia di Wuhan. «Alcuni, negli Stati Uniti - ha detto - hanno inventato e diffuso la storia assurda del laboratorio di Wuhan, e la Cina ha espresso seria preoccupazione a riguardo». Quasi contemporaneamente il portavoce del ministero degli esteri Wang Wenbin impallinava il rapporto semestrale del governo britannico sulla situazione di Hong Kong accusandolo di «confondere il bene e il male» e di essere «pieno di pregiudizi ideologici».
Nel rapporto il ministro degli esteri britannico Dominic Raab condanna il comportamento della Cina rivolto a «reprimere il dissenso e l'espressione di alternative politiche». Inoltre accusa Pechino di aver «infranto gli obblighi internazionali minando l'alto grado di autonomia, i diritti e le libertà» - definite nelle intese sino-britanniche che nel 1997 misero fine all'era coloniale di Hong Kong. Ma a mandare su tutte le furie il Dragone contribuisce anche il rapporto di Amnesty International sulla repressione di uighuri e altre minoranze musulmane. Un documento basato sulle circostanziate testimonianze rese ad Amnesty da decine di ex-detenuti nei cosiddetti campi per la «trasformazione attraverso l'educazione». Veri e propri lager dove lavori forzati e torture creano per Amnesty un autentico «inferno distopico».
Ma come sottolinea Agnès Callamard, segretaria generale dell'organizzazione, quell'inferno ha potuto proliferare anche grazie al silenzio delle Nazioni Unite che «hanno rinunciato al loro mandato» e a quello del segretario generale Antonio Guterres colpevole di «non aver denunciato la situazione e non aver richiesto un'inchiesta internazionale». Accuse ovviamente infondate per i cinesi secondo i quali Amnesty racconta bugie mentre il rapporto è solo «un'aggiunta a quelle stesse bugie».
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