Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ha conferito ieri un tocco surreale al grande teatro della guerra mediorientale: col vestito rigato e il volto delle grandi circostanze ha fornito a Pechino il palcoscenico per un accordo di pace e collaborazione (che non si realizzerà mai) fra l'organizzazione terrorista di Hamas, padrona di Gaza, e Fatah, padrona dell'West Bank, insieme ad altri 12 gruppi, fra cui la Jihad Islamica che ha subito dichiarato di essere contraria a qualsiasi dichiarazione che riconosca l'esistenza di Israele. «Abu Mazen abbraccia gli assassini e gli stupratori di Hamas, rivelando il suo vero volto» commenta il ministro degli Esteri Israel Katz.
Al momento Musa Abu Marzuk, uno dei capi di Hamas (come mai è in giro per il mondo come niente fosse dopo il 7 ottobre?) e Mahmoud el Aloul, vicepresidente di Fatah, fra molte strette di mano hanno intenzione solo di mettere un cappello sulla sedia del potere a Gaza verso la fine della guerra e di dimostrare che hanno un potente sponsor, ricco e aggressivo come e più degli Stati Uniti. I rapporti fra i due gruppi e anche gli altri, non sono buoni: chi era alla riunione riporta che le voci alterate provenienti dalla discussione bucavano le porte e le mura. Nel 2007 Hamas gettava dai grattacieli di Gaza gli uomini di Fatah che cercavano di prendersi la Striscia dopo lo sgombero ed elezioni in cui peraltro Hamas era risultata vincente.
La Cina stavolta, data l'estrema debolezza di Hamas, mentre Sinwar non ha più a suo fianco l'indispensabile Deif, potrebbe richiedere un comportamento disciplinato da due valvassini che hanno interesse alla sua sponsorizzazione e in generale a una sua presenza significativa nell'area, che è ciò cui essa punta, nell'ordine post bellico che altrimenti rischia di riflettere interessi diversi da quelli palestinesi. E dell'asse antioccidentale: la Cina si muove con determinazione nell'area, con la sua forza ha portato nei mesi scorsi a un inusitato accordo (vedremo quanto solido) fra Iran e Arabia Saudita, in sua compagnia e sotto la sua ala figurano, insieme a Hamas, Iran, Hezbollah, le altre forze «proxy» iraniane come gli Houthi e gli iracheni, e la Russia è la sua compagna di strada, pronta a difendere Hamas all'Onu e a invitarla a casa sua insieme all'Iran. Questo, a fronte delle forze democratiche occidentali e incidentalmente ad alcuni Paesi sunniti che aspettano il segnale per rientrare in scena.
L'accordo palestinese dovrebbe, secondo le dichiarazioni dei protagonisti, disegnare un futuro post bellico in cui a fianco dei residui di Hamas, ormai pacificati, si erge a protagonista, pronto a entrare nella gestione prossima ventura della Striscia, quel Fatah «moderato» e anche, come disse Biden «riformato», per cui la carneficina di Sinwar dovrebbe ricevere il premio della formazione di uno stato palestinese non contrattato con Israele né nei confini né nelle intenzioni. Questo contro gli accordi di Oslo e ogni buon senso. Hamas e Fatah insieme a Gaza significherebbe la preparazione del prossimo 7 ottobre, e peggio. Nei Territori almeno il 70% della popolazione voterebbe per Hamas e non per Abu Mazen, che peraltro non ha mai condannato il 7 ottobre. L'entità composta dai due gruppi non avrebbe la minima intenzione di abbracciare il concetto di democrazia, ma al contrario sarebbe un sostenitore di un regime teocratico e di nuovo terrorista.
La Cina ne è ben consapevole, ed è contenta di proporre il caos, proprio mentre Netanyahu sbarca negli Usa e si prepara a spiegare che Israele è solo il capofila di uno scontro mondiale, in cui la libertà e la pace sono un premio tutto da conquistare.
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