La coccolata

Gli intellettuali contro Giorgia Meloni. Le chiedono di condannare il fascismo e si stupiscono per lo spazio che le viene dedicato

La coccolata

Improvvisamente, tac: Giorgia Meloni diventa la “coccolata”. Ovvero la leader che gode di "buona stampa", sebbene non si capisca esattamente dove risiedano tutti questi giornalisti striscianti ai suoi piedi. A sostenere questa brillante teoria è il politologo Piero Ignazi su Domani, in un incomprensibile editoriale che è solo la ciliegina sulla torta di una settimana tormentata per gli intellettuali de sinistra dalla rosicata facile.

Qualcuno nei giorni scorsi ha “appeso” il suo libro in stile Piazzale Loreto, altri l’hanno definita “boriosa urlatrice di piazza”, tanti si sono schierati a difesa del prof che aveva messo il suo volume a testa in giù sui social. L’editoriale di Ignazi rientra in questa irritazione generale degli “intellettuali”, un po’ sorpresi e molto scocciati dall’idea che la fiamma di FdI abbia superato il Pd nei sondaggi. Tale è la sorpresa, da tradire due vizi della sinistra italiana: da una parte, il principio secondo cui l’odio è brutto solo quando non colpisce la destra (e gli sguaiati post dei prof ne sono la dimostrazione); dall’altra la convinzione che un partito “sovranista” non possa godere dello spazio politico conquistato da FdI. Almeno finché non rinnega un inesistente legame con le squadracce mussoliniane. Ignazi, per esempio, nel suo editoriale pare scandalizzarsi se la lettera al Corsera le ha “consentito” di raccontare “la bella favola del suo partito”. Mentre su Linkiesta il giornalista Mario Lavia, ex vicedirettore di Democratica (organo del Pd), s’è stupito se Meloni viene “lasciata libera di dire la qualunque 24 ore su 24 senza che nessuno emetta flatus voci”. "Lasciata libera", chiaro?

La verità è che non appena la “coccolata” è schizzata nei sondaggi (19%, a un passo dalla Lega), una parte del mondo culturale ha subito preparato le contromosse. Prima puntata: costringere FdI all'atto di fede antifascista, inteso come credo progressista. Un paio di giorni fa Ernesto Galli della Loggia sul Corriere aveva fatto notare a Meloni, tra le altre cose, che se intende guidare il Paese deve affermare senza se e senza ma che il fascismo è “radicalmente incompatibile con la democrazia liberale”. Lo stesso appello è arrivato, con altri termini, da Ignazi e Lauria. E forse molti altri concordano. Ma si tratta solo del trito ritornello di chi usa il randello partigiano per bollare come antidemocratici gli oppositori politici: il centrodestra oggi sfiora il 50% dei voti, e loro sono ancora lì a parlare di fascismo.

Dibattito inutile. Meloni è nata nel 1977, cioè quando il regime era morto da un pezzo, ed è arrivata alla maturità politica quando neppure il neofascismo stava tanto bene. Buona parte della classe dirigente nazionale del partito fa parte di quella Generazione Atreju che il Duce l’ha visto solo in fotografia. Un po’ di nostalgia per il Movimento Sociale Italiano ci sarà anche, per carità: la fiamma tricolore che arde nel simbolo di FdI ne è la prova ("le radici profonde non gelano"). Ma cosa c’è di male? Il MSI eleggeva parlamentari, mica era un covo di criminali. E poi in mezzo c’è stata Fiuggi, i dirigenti sono cambiati, il mondo è andato avanti.

Perché fossilizzarsi ancora su ‘sta storia del fascismo? Lo stesso accadde con Salvini, ricordate? Quando era sulla cresta dell’onda, dunque prima del Papeete, sembrava che l’Italia fosse ripiombata nella Repubblica di Salò: rosario e moschetto, fascio-leghista perfetto. Cosa è rimasto? Nulla, se non che i sondaggi ora premiano Meloni e l’attenzione antifascista si concentra su di lei. Prima ritenuta sostanzialmente innocua, oggi addirittura “coccolata”. E un po' pericolosa.

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