Il "codice Cichero", le ferree regole partigiane. Ma quante storie rimosse di soprusi e crudeltà

La brigata ligure si distinse per le norme di autodisciplina. Altre divisioni si macchiarono di crimini e reati comuni

Il "codice Cichero", le ferree regole partigiane. Ma quante storie rimosse di soprusi e crudeltà
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Celebrare la liberazione e il 25 aprile significa ricordare a trecentosessanta gradi quanto avvenuto ottant'anni fa poiché la lotta partigiana non fu solo luci ma anche tante ombre. Nel periodo tra il 1943 e il 1945, durante la guerra civile, furono numerosi gli eccidi compiuti da entrambe le parti e, se doverosamente si ricordano le stragi nazi fasciste, lo stesso non si può dire per quelle partigiane.

Ieri il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato a Genova la Divisione Cichero come esempio positivo della resistenza grazie al cosiddetto «codice Cichero» che imponeva regole di comportamento alle brigate partigiane sia al proprio interno sia verso i civili.

In particolare, il codice partigiano stabiliva che «nelle formazioni, il capo dovesse mangiare per ultimo, potesse addormentarsi solo una volta accertato personalmente che tutto funzionasse e fosse in ordine, avesse i turni di guardia più gravosi».

Inoltre, ha ricordato il capo dello Stato, il codice Cichero prevedeva: «che non si bestemmiasse, che non si molestassero le donne, che non si requisisse senza pagare il dovuto, che si dovesse dividere con gli altri qualunque cosa si ricevesse». «Alla popolazione contadina si chiede, non si prende; e, possibilmente, si paga o si ricambia ciò che si riceve» sostenevano inoltre le regole di comportamento.

Il caso della Divisione Cichero, fondata dal partigiano ligure Aldo Castaldi, è citato come un esempio virtuoso a fronte invece di altri gruppi partigiani rossi e garibaldini che si sono comportati tutt'altro che in modo onorevole.

Se è tristemente noto l'eccidio di Porzus perpetrato dai partigiani rossi a danno dei partigiani bianchi in cui perse la vita anche il fratello di Pasolini, i massacri non si limitano a questo episodio. In Emilia, in particolare nel modenese e nel reggiano, dal 1943 fino al 1949 avvennero migliaia di uccisioni in un'area soprannominata il «triangolo della morte». Il numero di morti resta imprecisato ma le stime vanno dai 17.000 morti secondo il ministro degli Interni Mario Scelba ai 30.000 dichiarati dal presidente del Consiglio, l'antifascista Ferruccio Parri, fino ai 34.500 indicati da Giorgio Pisanò a causa della «giustizia partigiana».

Uno dei massacri più violenti fu l'eccidio di Schio in cui partigiani legati alle ex-Brigate Garibaldi affiliati al Battaglione «Ramina-Bedin», unità garibaldina della Divisione «Garemi», uccisero nel carcere di Schio nel luglio 1945 54 persone. Nel maggio 1945 avvenne invece il massacro di Graglia nel biellese in cui persero la vita 35 persone, i partigiani uccisero prima i militari che si erano arresi, poi le ausiliarie e infine le mogli.

Purtroppo gli episodi di rastrellamenti, eccidi, massacri, uccisioni collettive perpetrate dai partigiani durante la guerra civile e anche nei mesi successivi alla fine della seconda guerra mondiale, si contano a centinaia e, se si vuole finalmente promuovere un'opera di pacificazione nazionale, occorre ricordare quel periodo storico nella sua interezza e non promuovere una memoria parziale.

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