Le domande sono importanti quando le risposte hanno un senso. Chiedere alla senatrice Ester Mieli «Lei è ebrea?» tradisce il peggiore dei pregiudizi: pensare che una fede sia una sorta di diminutio del proprio pensiero. Se già è grave oggi condizionare l'altrui libertà di opinione a supposte credenze religiose, è ancor più pericoloso stigmatizzare «l'essere ebreo» di una parlamentare Fdi, appuntandole simbolicamente sul petto una stella a sei punte, alla vigilia di una ricorrenza come il 25 aprile mai così divisiva. Chiedere scusa adducendo la banalità dell'amico/parente ebreo è una patetica aggravante. Scopriremo solo oggi il trattamento che verrà riservato alla gloriosa Brigata ebraica che sfilerà come ogni anno per le vie di Milano, da parte di quelle frange estremiste che considerano Israele responsabile unica del genocidio oggi in corso a Gaza, dimentichi delle responsabilità di Hamas che ha abbandonato i palestinesi al loro destino. Una violenza non peggiore di quella verbale dei «giustificazionisti» che ridimensionano la gravità del blitz del 7 ottobre. Ma la compressione delle idee innescata dal credo è un fenomeno che anche i cattolici conoscono bene. I loro distinguo sull'aborto, sulla fecondazione assistita, sull'eutanasia vengono derubricati a fastidiosi intralci dal sapore stantio, come la statua della donna che allatta considerata dal Comune di Milano «un simbolo religioso di valori non condivisibili». Eccolo, il pericolo dell'etichetta, della taggatura delle idee come fossero favolette su Facebook.
Anziché interpretarle, le sfumature del libero pensiero che sfuggono al dibattito «binario» tipico di certi talk show vengono interpretati come una strozzatura dalla meschinità di chi considera un fardello l'etica personale, la propria fede, i propri valori. È la deriva finale del pensiero liquido, più attento ai like che alla verità.
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