Passata la buriana - meno pesante di quanto avrebbe potuto essere, e il sollievo registrato off the record in ambienti militari russi lo confermerebbe - resta l'inevitabile domanda: e adesso che cosa succede? È lecito attendersi un'estensione del confronto militare, o addirittura l'accendersi di un conflitto di prima grandezza come qualcuno aveva paventato? O non si tornerà piuttosto alla situazione precedente il blitz lanciato l'altra notte sui cieli siriani?
La prima ipotesi sembra assai improbabile. Nessuno degli attori di questa crisi sta cercando di infilarsi in una guerra: non lo vogliono gli americani e i loro alleati, attentissimi a evitare di colpire con i loro missili i militari russi presenti in Siria e soddisfatti di aver dato a Bashar Assad la promessa lezione; e non lo vuole la Russia, che al di là delle reazioni tonitruanti è interessata a mantenere le condizioni per non perdere l'influenza nella regione regalatale dall'insipienza di Barack Obama.
Escluso ragionevolmente il fantasma di una guerra generata da un'escalation est-ovest, rimangono invece ben reali i rischi di un allargamento oltre i confini siriani del conflitto che divampa nel Paese di Assad da sette anni. E questo perché, esaurita la quasi simbolica sfuriata occidentale, quel conflitto semplicemente continuerà. Assad, che non vedrà compromesso il suo ruolo presidenziale che l'intervento militare della Russia gli ha assicurato, deve ancora mettere sotto controllo tre sacche di resistenza dei ribelli, una a nord-ovest nella zona di Idlib, una al centro-ovest del Paese tra Homs e Hama e una a sud vicino ai confini con la Giordania e con Israele. Delle tre è quest'ultima a suscitare le peggiori preoccupazioni, perché nell'area sono presenti sia gli hezbollah libanesi sia altre milizie filoiraniane.
Sono questi tra i più giurati nemici di Israele, che ha ripetutamente messo in chiaro di non voler accettare «a qualsiasi costo» il loro avvicinamento ai confini nazionali. L'attacco della scorsa settimana alla base aerea siriana T-4, in cui morirono anche sette militari iraniani, era stato un inequivocabile segnale, accompagnato da esplicite minacce verbali sia al regime di Teheran che a quello di Damasco a non sfidare la determinazione di Israele a proteggere il proprio territorio. Il rischio che questa sfida avvenga comunque rappresenta al momento, fra i tanti, il più grave elemento della degenerazione della situazione sul terreno: per Israele sarebbe questione di vita o di morte, e a quel punto Netanyahu non guarderebbe in faccia nessuno.
Un altro fronte minore che riguarda pure Israele è quello di Gaza. In questi giorni provocazioni e violenze al confine della Striscia si sono moltiplicate in vista del settantesimo anniversario della fondazione dello Stato ebraico, ma è sicuro che se la situazione degenerasse al confine siriano magari coinvolgendo direttamente hezbollah e iraniani, Hamas non farebbe mancare l'apertura di un fronte palestinese.
Un ruolo importante per cercare di impedire sviluppi che trascinino a pieno titolo
Israele nel conflitto siriano potrebbe essere svolto da Putin, dal quale Netanyahu si aspetta che tenga a freno i suoi amici di Teheran. Ma anche quelli, quando c'è di mezzo il «Satana ebraico», non ascoltano più nessuno.
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