"Per il confronto con papà ho vissuto la depressione. Con lui in sala operatoria la prima volta sono svenuta"

Medico come il luminare dell'oncologia, Giulia Veronesi: "A lungo mi sono sentita inadeguata. La sua lezione? L'umanità"

"Per il confronto con papà ho vissuto la depressione. Con lui in sala operatoria la prima volta sono svenuta"

«La prima volta in sala operatoria con papà sono svenuta. E anche la seconda e la terza. Vedrai, ti abituerai, mi diceva lui. E io se lo dici tu... intanto continuavo a svenire. Aveva ragione. Mi è passata completamente quella sensibilità al sangue». Giulia Veronesi, oggi è ordinaria di Chirurgia Toracica all'Università Vita-Salute San Raffaele e direttore della Divisione di Chirurgia Toracica all'Ospedale San Raffaele. «Lui» è papà Umberto, padre anche dell'oncologia in Italia, punto di riferimento internazionale nella lotta ai tumori.

Una bella sfida mettersi sulle sue orme.

«Infatti ero depressa. Il confronto è stato duro. Il senso di inadeguatezza e di inferiorità sono stati il mio pane quotidiano per anni. Però forse è stata anche la spinta a dimostrare che qualcosa di buono lo potevo fare anche io (ride)».

Era brava a scuola?

«Alle medie ero una secchiona, al liceo studiavo le materie che mi piacevano».

Quelle scientifiche...

«Tutt'altro. Filosofia, letteratura, le materie umanistiche. Matematica mi veniva facile. Anche se poi ho scelto una facoltà scientifica. Medicina, perché dovevo trovare un impiego che desse un senso alla mia vita. Un senso che io trovavo nell'essere altruista e fare del bene a qualcuno».

Che cosa ha significato essere «la figlia di...»?

«Non l'ho mai detto a nessuno. I professori non lo sapevano e nessuno mi ha mai chiesto. Solo una volta a un esame è successo, ma io ho detto che era un caso di omonimia. Mio padre è stato lontano mille miglia dal voler raccomandare i suoi figli nel mondo della medicina. Poi nella scelta chirurgica mi ha un po' indirizzato».

In che modo?

«Gli avevo chiesto un parere sulla specialistica. Io farei chirurgia perché è la cosa più affascinante e completa mi ha detto. Era un appassionato della chirurgia oltre che dell'oncologia e della ricerca».

Qual è l'insegnamento più importante che pensa di avere avuto da suo padre?

«La sua umanità. Quel suo modo di trattare i pazienti. Era empatico con tutti, umile nell'essere autoironico, a non prendersi sul serio. A fare le cose in modo semplice anche se erano estremamente innovative. E la sua empatia con i pazienti e i collaboratori penso mi sia rimasta addosso, forse anche perché in questo mi sento più simile a lui».

E riguardo all'aspetto professionale?

«Senz'altro la curiosità di conoscere i meccanismi che stanno dietro le cose, andare oltre i dogma, cercando sempre di progredire. L'essenza della ricerca».

Anche sua madre, Sultana, è stata una delle prime pediatra nella Milano degli anni Sessanta.

«Era una sopravvissuta ai campi di concentramento a Bergen Belsen, dove è rimasta dai 13 ai 16 anni. Quando è tornata a Milano ha fatto le medie, tre anni in uno, poi il liceo ebraico. Si è diplomata lavorando e sostenendo la mamma che era pure malata. Il padre poi l'ha spinta a iscriversi all'università, lei per questo lo ha sempre ringraziato. Erano poverissimi, vivevano in 7 in un monolocale, si è laureata nel 1958, ed è diventata pediatra nel 1960. Poi ha iniziato ad aprire reparti di pediatria negli ospedali, alla Mangiagalli, al San Carlo. Nel frattempo si è sposata con mio padre. Ha avuto il primo figlio nel '61 poi per dieci anni ha fatto un figlio ogni due anni e non ha mai smesso di lavorare. Andava all'ospedale con il neonato nella borsetta».

Però?

«In famiglia c'era un'incoerenza, una dicotomia. Siamo 4 maschi e due femmine poi si è aggiunto il mio settimo fratello. Nella nostra educazione c'è stato sempre un esempio positivo di entrambi i genitori sul lavoro, sull'impegno, sullo spendersi non per fare soldi ma per un ideale e cercare di essere il meglio in quello che si sta facendo. In questo senso siamo stati educati nello stesso modo, maschi e femmine. Poi però mia mamma è una donna che ha una serie di tradizioni del mondo ebraico, secondo le quali è la donna che si dà da fare in casa, per cui dal punto di vista dei ruoli sociali in famiglia non eravamo trattati uguali. Ho sempre litigato con mia madre sulla parità del trattamento. Io mi dovevo alzare a sparecchiare. I maschi no. Però sono state cose del tutto minori rispetto poi alla professione. La mamma ha dato un grande esempio. Mi ha trasmesso il senso materno, infatti ho tre figli meravigliosi, insieme a questa passione per il lavoro passata da entrambi».

Oggi lei è la prima donna, in Europa, ad aver usato il robot chirurgico per il trattamento del tumore polmonare.

«È una fase di grandi cambiamenti nella cura del tumore al polmone, una fase che potrei definire esaltante sia per i nuovi farmaci, le tecniche chirurgiche, la tecnologia e anche la prevenzione».

Mai avuto dubbi per la medicina?

«Mai, la chirurgia toracica è stato amore a prima vista. Anche se ero partita da quella generale. Poi per caso sono finita in una sala di chirurgia toracica dove sono stata invitata a lavarmi».

Cosa significa?

«Partecipare all'intervento. Ero specializzanda, e lì la mia fortuna è stata un mio superiore che mi ha dissuaso a fare il chirurgo generale, proprio per il mio genere...».

Scusi?

«Uno dei tutor mi ha fatto notare che come femmina non avrei dovuto fare la proctologia perché non sta bene. Me la sono presa terribilmente. Me ne andai. Ci sono state due cose che mi hanno disturbato nel percorso. Una è stata questa, che poi è stata la mia fortuna, perché sono finita in chirurgia toracica».

E l'altra?

«In fase molto più matura, prima di entrare in questa università, avevo tentato con un'altra e lì c'è stato uno sbarramento per il genere. Volevano una figura maschile a capo di un reparto di chirurgia toracica. Invece sono stata molto bene accolta all'Università Vita-Salute San Raffaele dopo aver vinto il concorso».

Donne e scienza. Quali difficoltà vede ancora oggi in questo senso?

«Credo siano più sociali che veri e propri ostacoli formali. Per le donne ci sono ancora difficoltà a stabilire dei ruoli familiari e sociali di parità e si trovano a fare doppia, tripla fatica se vogliono fare strada in un certo senso.

La cosa importante è cercare di non abbandonare le caratteristiche della femminilità per adeguarci al modello maschile. Sarebbe un errore, dovremmo portare come donne dei valori che migliorano l'ambiente di lavoro, la società».

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