La Consulta può ampliare il fine vita

Atteso il pronunciamento sul caso Cappato: favorì il suicidio assistito di un malato

La Consulta può ampliare il fine vita
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Fin dove si può spingere la magistratura nell'allargare sempre di più le maglie delle norme che puniscono il suicidio assistito? È sensato, visto che il Parlamento non ha finora varato una legge che legalizzi l'eutanasia, utilizzare i ricorsi alla Corte Costituzionale per produrre di fatto le norme che le Camere non hanno ritenuto di approvare? Sono queste le domande che incombono sulla decisione che da ieri sera, dopo una lunga udienza pubblica, la Consulta è chiamata a prendere su richiesta di una giudice di Firenze.

Al centro della vicenda c'è anche in questo caso Marco Cappato, l'esponente radicale che da anni accompagna a morire in Svizzera malati irrecuperabili, e subito dopo si autodenuncia. Già una volta, per avere aiutato a morire il musicista Dj Fabo, Cappato è stato assolto grazie alla Corte Costituzionale. Ma non si accontenta, e punta ad allargare ancora il «diritto a morire», scegliendo casi sempre più controversi. E ogni volta trova giudici disposti a seguirlo.

Il nuovo procedimento contro Cappato riguarda Massimiliano, un fiorentino malato di sclerosi multipla, accompagnato dal radicale e da due sue collaboratrici a suicidarsi nel dicembre 2022 nella stessa clinica svizzera dove morì Dj Fabo. Rispetto al quale Massimiliano presentava una differenza sostanziale: il Dj era tenuto in vita dalle macchine, legato a un respiratore artificiale e nutrito per via endovenosa, e questo venne ritenuto dalla Corte Costituzionale decisivo nell'assolvere Cappato. Invece il fiorentino era certamente incurabile, certamente destinato a peggiorare sempre di più, ma fino a quel momento in grado di vivere. Se non gli avessero collegato alle vene la flebo col veleno, azionata poi da lui stesso, oggi sarebbe ancora vivo. «Nel caso di specie - scrive il giudice Agnese Di Girolamo trasmettendo il caso alla Consulta - non risulta integrato il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale (....) M. non era certamente sottoposto a trattamenti di sostegno vitale né lo stato di avanzamento della sua patologia richiedeva tali trattamenti (...) non beneficiava di alcun supporto meccanico, non era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita e non richiedeva manovre di evacuazione o interventi assimilabili». «È dunque da escludere - conclude il giudice - che l'aiuto a morire prestato dagli indagati a Massimiliano possa beneficiare della non punibilità prevista dalla Corte Costituzionale».

Cappato deve essere condannato, dunque? Niente affatto, dice il giudice. Deve essere invece la Corte Costituzionale a ripensarci, modificando la sua decisione di appena sei anni fa. Limitare il diritto all'eutanasia alla presenza di un «sostegno vitale» lega la sorte del malato a «circostanze del tutto accidentali, in relazione alle condizioni cliniche della persona interessata e al modo di manifestarsi della malattia».

Secondo il giudice fiorentino, «non può ritenersi che sia una situazione di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale a giustificare la liceità dell'aiuto al suicidio». Anche pazienti non tenuti in vita dalle macchine «sono parimenti costretti a patire sofferenze intollerabili, esponenti a una agonia altrettanto se non più lunga». In sostanza, dice il giudice, «l'incriminazione discrimina tra diverse categorie di pazienti, in modo irragionevole e sproporzionato». Per i pazienti che vivono anche senza «trattamenti di sostegno vitale» «l'impossibilità di accesso al suicidio assistito si traduce in una ingiustificata lesione dei loro diritti fondamentali». Aiutarli a morire vuol dire liberarli dalla «contemplazione ormai disperata della propria agonia e della propria sorte».

Sono, come si vede, temi drammatici, che nelle carte sono spiegati dalla testimonianza del padre che raccontava come il figlio non desiderasse che liberarsi dalla schiavitù umiliante della malattia.

Ma che il giudice utilizza esplicitamente con un altro fine: chiedere che sia la Corte Costituzionale a riscrivere la legge, invocando un «intervento demolitore» basato sulla «necessità di sfaldare progressivamente il divieto di aiuto al suicidio previsto dal codice penale». Esattamente l'obiettivo che avevano i radicali (Cappato compreso) col referendum dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale.

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