Giulio Andreotti, che la politica la capiva e spesso la coniugava giustamente con le ambizioni e le debolezze degli uomini, spesso ripeteva che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Ebbene, ci sono due esponenti politici che stanno movimentando i rispettivi campi, solidarizzano a parole con il loro schieramento, ma non prendono impegni e se possono seminano polemiche su questo o quel tema aspettando un evento che nella loro mente è quasi un appuntamento con il destino. Si tratta di Matteo Salvini, leader della Lega, e di Giuseppe Conte, capo dei 5stelle. E l'evento, inutile dirlo, ha la data del 5 novembre, il giorno in cui entrambi sperano nell'ipotetico ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca per cambiare o almeno modificare a loro favore gli equilibri politici del nostro Paese. In fondo entrambi ebbero la loro età dell'oro durante il primo mandato di Donald il Rosso che celebrò, sia pure a distanza, il loro matrimonio di governo non certo fortunato. Ed entrambi oggi sperano che un'altra edizione del trumpismo alla White House, riveduta e corretta, possa riportarli agli antichi fasti aumentando il loro potere nelle rispettive coalizioni o, magari, riproporre qualcosa di nuovo sotto l'ombrello di un'internazionale populista rigenerata da «The Donald».
Così nel governo da mesi Matteo Salvini ha inaugurato una strategia improntata al movimentismo più sfrenato. Incalza la Meloni su molti temi come l'immigrazione, la Rai, la sicurezza, la critica all'Europa, il no agli aiuti militari all'Ucraina sempre con accenti radicali compatibili con quelli usati da Trump oltreoceano. Insomma, aumenta scientemente lo stato ansiogeno del governo, ma senza sferrare colpi, in attesa e nella speranza di proporsi dopo il 5 novembre nel ruolo di garante del governo con il nuovo inquilino repubblicano della Casa Bianca, visto il legame di simpatia che aveva legato la Meloni con il democratico Joe Biden.
Speculare all'atteggiamento di Salvini è quello di Conte. Il leader dei 5stelle ha aderito formalmente all'idea del «campo largo» con il Pd ma senza prendere impegni. Anzi, sotto sotto svolge un'azione di guerriglia, pone dei «veti» sulla presenza di Renzi e in politica estera persegue una linea di pacifismo a senso unico boicottando ogni ipotesi di aiuti militari a Kiev. Una tattica a zig e zag, «stop and go» che di fatto - vedi in Liguria - ritarda il lancio delle candidature del campo largo nelle elezioni regionali di questo autunno. Insomma, anche lui è in modalità «stand-by», aspetta di vedere cosa succederà il 5 novembre rivendicando le sue simpatie per Trump («la sua elezione non sarebbe un pericolo per la democrazia») al costo di suscitare le ire di quelli che sulla carta dovrebbero essere i suoi alleati. Il suo obiettivo, le sue ambizioni? Se vincerà Trump l'unico che nel «campo largo» può bussare alla porta della Casa Bianca è lui e questo potrebbe aumentare il suo potere di contrattazione in quello schieramento.
E quale potrebbe essere l'arma? In questa fase di «trasversalismo» spinto in cui il Pd lancia segnali a Forza Italia (dallo ius scholae all'autonomia) c'è anche l'alternativa nascosta, quella che si può paventare o minacciare per accrescere la propria influenza nei rispettivi schieramenti: l'alleanza tra populisti di ogni colore contro l'ipotetica maggioranza europea, la cosiddetta maggioranza Ursula quella a cui va di traverso Trump. Siamo ai confini tra la politica e la fantapolitica ma in fondo un governo giallo-verde già c'è stato.
E magari nel sogni del cantore del populismo grillino potrebbe anche essere allargato visto che - parole di Travaglio - «la Meloni, come Conte, è vista come un'intrusa dalle élite più putride, use a scalzare gli outsider tramite qualche infiltrato». La speranza è sempre l'ultima a morire.
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