È una corsa. Una corsa contro il tempo, perché bisogna fare in fretta, perché ci sono persone che non hanno luce acqua e gas. Siamo all'aeroporto militare di Belluno e qui da giorni si lavora giorno e notte in condizioni estreme. Solo oggi splende un po' di sole. Gli elicotteri del Centro coordinamento e sicurezza, dell'esercito e della protezione civile si alzano in volo. E bisogna arrivare prima che arrivi il buio.
Gli elicotteri partono, uno dietro l'altro, per uno che arriva un altro parte. Carabinieri, polizia, esercito, vigili del fuoco, squadre di emergenza. I soccorsi caricano l'acqua sui camion da distribuire alle popolazioni colpite. Si porta l'acqua con le bottiglie o con le autobotti. Gli elicotteri trasportano i generatori di corrente: il vento ha soffiato fino a 190 chilometri all'ora e ha spezzato i pali della luce come grissini. Li ha recisi a metà, abbattendoli. E ora si va in ogni centralina. Anche le comunicazioni interrotte.
Stavolta la furia della montagna ha travolto pure la montagna stessa. Alle 12.41 siamo sul piazzale del 14° Nucleo elicotteri carabinieri, stiamo aspettando che il Corpo Nazionale Soccorso Alpino Veneto ci venga a prendere per andare su, nelle zone dove senza i mezzi di soccorso non si arriva: Rocca Pietore, Sotto Guda, Laste, Colle Santa Lucia e Livinallongo del Col di Lana, patrimoni dell'umanità, travolti dal fango e dalla tempesta. Alle 13.09 con Alex Barattin, delegato II sezione Dolomiti bellunesi, saliamo nel mezzo del Soccorso Alpino e partiamo. La valle dietro di noi apre a montagne incantate. Le case incastonate sembrano quelle di cartone sul presepe. I boschi sono arazzi dipinti dai colori pastello, gli alberi sono fili di cotone cuciti a mano dalla natura. Siamo nel cuore della Marmolada.
Ma quando arriviamo nei paesi più colpiti lo scenario è devastante. Gli alberi morti, caduti a terra, a destra e a sinistra, sembrano morti in un campo di sterminio. Dove la furia è passata le piante non ci sono più. Per gli esperti potrebbe volerci un secolo per rimboschire. Passiamo nelle strade dove è vietato l'accesso, i tronchi mozzati spuntano a destra e a sinistra. Sbarrano la strada. Le frasche sbattono sull'auto. Qualche ramo cade giù. In alcuni punti la strada è crollata. E l'asfalto rigurgita bolle d'acqua.
La via davanti a noi è una coperta di fango. Accostiamo e giù dal ponte, il torrente, marrone melma, esplode in piena. In un altro punto è caduto un masso. Come un formaggino di 4 metri che ostruisce il torrente e che ora dovranno far esplodere. Proseguiamo e una sorta di diga si è rotta, sbriciolandosi come il Grana. In ogni punto spuntano uomini in divisa, posti di blocco, lampeggianti. Poi, arrivati in paese, il magone. Nelle case non c'è acqua. Per andare ai servizi si getta l'acqua con un imbuto per pulire. Gli scavatori procedono 24 ore al giorno. La gente con gli scarponi spala il fango con le mani e il badile.
Una anziana ci guarda disperata. La «roba» che era nelle case viene ammucchiata fuori, marcia. Qualcuno tenta di recuperare un materasso mettendolo ad asciugare. I tetti sono scoperchiati e in alcuni le tegole sono esplose. Saliamo e da sopra lo spettacolo è ancora bellissimo. La montagna continua a svettare, ma sotto stanno gli scavatori e i lampeggianti. È quasi buio. Dobbiamo scendere.
Davanti a noi sta la parete nord ovest del Civetta. Bella alta, rigogliosa. Tornando indietro l'ultimo filo di luce si incastona tra le montagne illuminando un lago. Un lago pieno di melma fango e legname che mette i brividi.
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