Al grido di «disarmiamo il patriarcato» sfila a Roma la «marea fucsia transfemminista», alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Tra slogan, canti, immancabili bandiere palestinesi (che con la lotta al patriarcato c'entrano effettivamente assai poco) e ministri bruciati in effige, il corteo si è mosso da Piazzale Ostiense, nel pomeriggio di ieri, al grido di «siamo tutte transfemministe». Termine coniato nel nuovo millennio in Usa per indicare «il rifiuto del binarismo di genere» e aprire il «movimento delle donne trans» a «persone queer, intersex, uomini trans, donne non-trans, uomini non-trans» e chi più ne ha più ne metta. Il principale nemico «patriarcale» individuato dalle astute promotrici della manifestazione (alla quale hanno partecipato rappresentanti dei partiti di centrosinistra, dal Pd a Avs) è il governo di Giorgia Meloni: «Gli stupratori sono lei e il ministro Valditara, perché fanno violenza di Stato e non ci consentono di essere libere», si grida al megafono dalla testa del corteo.
E il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara, dopo le esternazioni presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, è il Nemico Pubblico numero uno: quando il corteo scorre davanti al suo Dicastero viene organizzato il rogo della sua immagine: «Prima di raggiungere la piazza contro la violenza di genere bruciamo il ministro Valditara», hanno proclamato le animatrici dei collettivi transfemministi.
Nessuna menzione, ovviamente, per le donne stuprate, esibite come trofei di caccia e fatte a pezzi il 7 ottobre 2023 dai nazi-islamisti di Hamas: per le «trasfemministe» quelle donne se la son cercata, essendo israeliane, o comunque ebree. Anzi, dal carro variopinto di «Non una di meno» si grida la propria solidarietà solo «alle donne palestinesi vittime della brutale violenza colonizzatrice israeliana, in quanto potenziali genitrici delle nuove generazioni palestinesi» e si esprime vicinanza alle «transfemministe di Gaza» (sicuramente assai ben viste da Hamas).
Nessuna solidarietà neppure per le donne ucraine vittime dell'invasione imperialista di Putin: anzi, si invoca la fine degli aiuti militari alla Resistenza ucraina perché «così si tolgono risorse alla sanità pubblica».
Per fortuna qualche gruppo di manifestanti ricorda anche le vittime dell'islamismo, che quanto a cultura patriarcale non ha nulla da imparare.
E così una quindicina di ragazze si imbavagliano e si denudano il seno per ricordare l'eroica protesta dell'iraniana Ahoo Daryaei. Mentre due giovani rifugiate afghane, Muztha e Mina, ricordano solitarie con i loro cartelli la violenza dei talebani: «Non potevamo parlare con gli uomini, studiare o lavorare».
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