Così è stato abbattuto il teorema che incastrava Berlusconi e Dell'Utri

Demolito il cavallo di battaglia dell'inchiesta: non c'è nessuna prova che la proposta mafiosa sia mai pervenuta al Cavaliere

Così è stato abbattuto il teorema che incastrava Berlusconi e Dell'Utri

Era la pietra angolare, e forse il vero obiettivo, del teorema sulla trattativa Stato-Mafia: il ruolo di Silvio Berlusconi, terminale ultimo del presunto accordo con i boss, quello che avrebbe assicurato vantaggi di ogni tipo a membri di Cosa Nostra dentro e fuori dalle carceri. Come fosse ipotizzabile un ruolo del Cavaliere, che nel biennio 1992-1993, era ancora lontano dallo scendere in politica, non era mai stato spiegato bene. Eppure la condanna a dodici anni di carcere inflitta nell'aprile 2018 a Marcello Dell'Utri si basava proprio su questo assunto: che le richieste dei boss corleonesi fossero state recapitate, ascoltate, in parte soddisfatte da Berlusconi, una volta divenuto leader di Forza Italia e presidente del Consiglio. Berlusconi non era mai stato messo sotto inchiesta in questo processo, ma era come se lo fosse. E le motivazioni della condanna di Dell'Utri in realtà infierivano soprattutto su di lui.

Anche su questo cruciale versante le motivazioni rese note ieri della sentenza d'appello, in particolare nei passaggi che spiegano l'assoluzione di Dell'Utri, demoliscono senza troppi distinguo il lavoro della Procura palermitana, che di questa indagine aveva fatto il suo cavallo di battaglia. Non c'è nessuna prova, si legge nelle motivazioni, che la proposta mafiosa sia mai pervenuta a Berlusconi quando arrivò a Palazzo Chigi. Berlusconi, insomma, non ne sapeva niente. Tant'è vero che continuò a spedire boss e picciotti al carcere duro.

Per arrivare a questa conclusione, i giudici della Corte d'assise di Palermo infieriscono su Dell'Utri: e d'altronde era forse eccessivo immaginare che arrivassero a sconfessare anche su questo versante il lavoro della Procura di Palermo, approdato alla condanna definitiva dell'ex senatore (già scontata) per concorso esterno. Dell'Utri, scrivono, «aveva piena conoscenza del progetto ricattatorio/minaccioso, per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano»: ma «difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato come «l'ultimo miglio» percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione».

Su quale fosse il messaggio da recapitare, la sentenza sa di muoversi su un terreno scivoloso. Perché da un lato dà conto di come svariati pentiti raccontassero di una Cosa Nostra soddisfatta dell'approdo del Cavaliere al governo. Ma dall'altro c'è il dato inoppugnabile che i boss ancora liberi, a partire dai fratelli Graviano, allestirono sotto il governo Berlusconi quello che doveva essere il delitto più grave di tutti, con centinaia di carabinieri destinati a essere uccisi allo Stadio Olimpico. Perché mai? Spiegazione: doveva essere il colpo di grazia, la spinta al cedimento finale dello Stato. Ma l'attentato fallì. E Dell'Utri non recapitò mai il messaggio di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca.

Verosimile o meno che sia quest'ultimo passaggio, la sentenza è netta nell'affermare che non c'è prova che il ricatto sia mai arrivato a destinazione. Per questo Dell'Utri viene assolto, e Bagarella e Brusca condannati solo per il tentativo. Brusca nel frattempo si è pentito.

Ma, scrivono i giudici, «va detto che né Brusca né nessuno degli altri collaboratori di giustizia che, con le loro dichiarazioni hanno riscontrato sul punto Brusca, hanno offerto qualche elemento chiaro e tangibile che possa asseverare un contatto Dell'Utri/Berlusconi sulla tematica d'interesse». Perché dei giudici lo scrivessero ci son voluti ventiquattro anni.

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