Così la triste Groenlandia è la nuova isola del tesoro

Ghiacci, buio, dieta a base di foca, record di suicidi. Ma è strategica e ricca di terre rare, e Trump lo sa

Così la triste Groenlandia è la nuova isola del tesoro

L'isola del tesoro ha cambiato latitudine, non è più quella di Robert Louis Stevenson, con i quindici uomini sulla cassa del morto. Si è spostata dai Caraibi e ha traslocato al circolo polare. Si chiama Groenlandia. Fa francamente schifo, ed infatti grande com'è ci abitano soltanto in 57mila, meno della metà dei residenti a Bergamo.

L'isola, che ha pure il primato di essere la più grande del mondo - se si trascura l'Australia che però fa continente a sé - è distesa come un tricheco tra l'Atlantico settentrionale e l'Artico, occupando due milioni e centomila chilometri quadrati, sette volte l'Italia. È dotata, tranne un lembo di costa con relativo entroterra nella zona sud-occidentale, di un'armatura di ghiaccio spessa tre chilometri. Ed ecco la notizia che la fa essere oggetto del desiderio universale: di America, Russia e persino della Cina, che se ne sta alquanto lontana ma si definisce nazione «quasi artica» ed ha già acquistato aeroporti e rari porti, nonché lo sfruttamento di miniere di uranio. Non c'è solo l'elemento idoneo per usi pacifici e meno pacifici dell'energia nucleare. Sotto la calotta artica la Groenlandia custodisce l'Eldorado. Un forziere dove si concentrano ricchezze di ogni genere: oltre all'uranio, petrolio, metano, oro, piombo e molecole mai sentite nominare prima d'ora, chiamate terre rare, le quali dicono i cyber scienziati siano la pietra filosofale non degli uomini, delle donne e dei trans del futuro - che non si sa che fine faranno - ma dell'intelligenza artificiale che di queste terre si nutre come i panda fanno con il bambù.

Non bastasse l'enorme serbatoio di materie prime, essa è ambita in quanto è l'incrocio strategico dove nei prossimi anni si giocherà la supremazia delle grandi potenze. Donald Trump la vuole a tutti costi comprare dalla Danimarca, del cui Regno prima era stata una colonia e dal 1952 è parte costitutiva, ma colonia resta.

Sono sicuro che i lettori del Giornale già sanno tutto di questa porzione di mondo, e sognano viaggi avventurosi tra misteri ancestrali come informano i dépliant di agenzie turistiche (dieci giorni sugli 8mila euro a testa, allegria). Ma che non sia un ambiente tale da rendere felici, anche se si sta larghi, e le chiappe poggiano sopra sacchi di monete d'oro, è provato dal record di suicidi saldamente detenuto dai residenti della capitale, Nuuk. Il tasso qui è 24 volte superiore a quello degli Stati Uniti. Persino il Giappone, una nazione con un'epidemia di suicidi consolidata, ha un tasso annuale di 51 persone ogni 100.000 abitanti. Quello della Groenlandia è di 100 ogni 100.000. La cartellonistica stradale, in questa mesta città di 18mila abitanti, non reclamizza la Coca Cola, ma è dominata dal telefono amico: «La chiamata è gratuita. Nessuno è solo. Non essere solo con i tuoi pensieri cupi. Chiama». Nei villaggetti dell'interno, che nessuna strada congiunge, ma solo aerei casuali, questo vortice oscuro si porta via specie gli adolescenti. In tanti, lo sappiamo, ci provano anche da noi. Lì ci riescono: non usano le pillole ma il cappio, qui chiamato «il lazo del Signore». Oltre ai suicidi c'è un altro infame record: qui gli aborti legali e finanziati dallo Stato superano annualmente il numero dei bambini sopravvissuti alla falce materna e paterna, ogni donna groenlandese in media ha praticato 2,1 volte la soppressione del feto, nonostante ogni tipo di prevenzione gratuita.

Dopo di che, certo, note positive arrivano dal turismo, che è una risorsa in crescita dell'8 per cento all'anno. Trattasi di una forma di esotismo lievemente masochista e pure carissima. Dieci giorni di sole smorto in slitta trascinati da cani disposti a ventaglio sul ghiaccio, scorgendo orsi bianchi e volpi bianche su sfondo bianco, è una meraviglia, per fortuna poi arriva la notte quando i bagliori verdi, rossi, blu delle aurore boreali sono fantastici; è l'undicesimo pasto consecutivo a base di foca bollita, il piatto nazionale, a indurre alla fuga anche i più tolleranti di questa ciccia oleosa.

E chi resta, cioè gli inuit, gli indigeni, che sono l'88 per cento della popolazione, un tempo festosi pagani, rallegrati com'erano dalla caccia ai buoi muschiati e dalla pesca al salmerino, intristiti per secoli dalla religione più tetra della galassia che è il luteranesimo scandinavo cui dovettero piegarsi - si inzuppano di alcool garantito grazie alle forniture dei colonizzatori prima norvegesi e ben presto dai danesi, che ora li assistono versando circa la metà del Pil. Costa loro quasi un miliardo di dollari l'anno: non lo fanno per nostalgia, ma è il prezzo del mangime per preservarsi la gallina che promette uova d'oro, poiché dà loro il diritto di spartirsi il bendidio che giace intonso nell'Oceano Artico sedendosi a pari titolo con i giganti a discutere di spartizioni. Persa la Groenlandia, addio sogni di gloria per i sudditi del re Federico X di Danimarca, niente più Sirenetta artica.

Si calcola infatti che a parte i tesori rinserrati nelle viscere traboccanti persino d'uranio della Groenlandia, che già di loro trasformerebbero in nababbi codesti scandinavi i 20 milioni di chilometri quadrati intorno al Polo Nord valgano anche solo per il gas e il petrolio - intorno ai 35mila miliardi di dollari (circa dieci volte il debito dell'Italia). Un antico trattato suddivide la sovranità di questo pezzo di mondo surgelato tra Stati Uniti (che per questo acquistarono l'Alaska dallo Zar nel 1867 per iniziativa del segretario di Stato William H. Seward ), Russia, Norvegia, Canada e appunto Danimarca. Finché questi giacimenti risultavano beni puramente teorici, e la navigazione un'utopia, a causa di tecnologia carente e ghiaccio eterno, gli appetiti si palesavano come esercizi di bon ton. Ma il progresso della scienza e lo scioglimento dei ghiacci, che rende navi e sommergibili sempre più idonei a confortevoli traversate, ha suscitato un'insana voracità, determinando scontri sotterranei i cui fragori appena attutiti sarà bene che mettiamo in conto come profetici di guerre apocalittiche, sempre che le superpotenze non trovino un'intesa sulle porzioni che toccano a ciascuna. E per l'America è assolutamente prioritario essere almeno a pari livello della Russia. Oggi non è così. Mosca domina. Da vent'anni la Russia ha preso possesso di questi mari sviluppando una flotta di sommergibili nucleari capaci di garantire una supremazia assoluta. Sotto Obama e Biden c'è stata una clamorosa sottovalutazione dell'importanza strategica di questa porzione di mondo, e oggi in fatto di potenza subacquea gli Stati Uniti mi dicono fonti bene informate sono indietro di dieci anni rispetto alle performance di cui sono capaci gli attrezzi artici di Putin.

Attraverso questa prevalenza la Russia avrebbe le chiavi della rotta marittima artica che da Rotterdam congiunge l'estremo est della Russia, Vladivostok, e poi la Cina, ridurrebbe del 30 per cento i costi dei trasporti tra Europa e Oriente, con un buon effetto anche per l'Italia, se i corridoi ferroviari previsti collegheranno Genova con il Mare del Nord. Ma renderebbero marginali in questo commercio gli Stati Uniti. E guerre commerciali e guerre guerreggiate hanno confini labili, come dimostra la storia.

Da qui l'ambizione di Trump, che si propone di potenziare la presenza americana da quelle parti, costi quello che costi, e se i proprietari danesi non ci stanno (e con il cavolo che Copenaghen accetta di spogliarsi a basso prezzo della sua riserva aurea) userà altri strumenti. Il Wall Street Journal aveva scritto già nel 2018 che Trump, nello scetticismo dei suoi collaboratori, aveva coltivato l'idea. E oggi è determinatissimo, e il suo vice J.D. Vance persino di più. I due non sono pazzi squinternati, accumulatori seriali di ghiaccioli, e non collezionano oche zampe-rosee. C'è di mezzo quello che si chiama, con formula pomposa, ordine mondiale, ma la sua stabilità è condizione della pace, o almeno di qualcosa che le somiglia. Per questo non tanto scherzosamente Donald ha lanciato già in gennaio l'idea di spingere il Canada a entrare nella Federazione Usa. Ma sulla Groenlandia non mollerà. Sull'isola c'è già la base militare americana più a nord, oltre 1.000 chilometri sopra al circolo polare artico: la Thule Air Base, parte decisiva del sistema di allerta antimissilistico statunitense e nella quale gli Stati Uniti hanno grandissime libertà di azione. Ma è troppo poco. Per questo Trump ripete che gli Stati Uniti «otterranno» la Groenlandia. E persino Putin ha ammesso che «la cosa è seria e ha ragioni storiche per farlo». La cosa non piace a Vladimir. Perciò, per dare un segnale di allerta, si è recato, in abiti militari, a Murmansk, l'unico porto russo ad acque profonde, sito sulla penisola di Kola, e vero caposaldo del dominio artico russo. Per questo, lo stesso giorno, sabato 29 marzo, di controbalzo, Vance si è recato, assai poco gradito, a Pituffik, dove c'è la base di Thule. E in contemporanea alla Nbc News, Trump ha confermato di volere per gli Usa la Groenlandia: «Al 100%». Alla domanda se si ricorrerà all'uso della forza, ha risposto che c'è una «buona possibilità di farlo senza l'impiego della forza militare», aggiungendo, «non tolgo però nulla dal tavolo».

La Danimarca, prima con una certa rilassata comprensione, ha ascoltato Trump. Ha troppi debiti storici con l'America, che l'ha liberata con la Gran Bretagna dal nazismo. Poi si è irrigidita e ha mostrato i denti. In diversi commentatori hanno chiesto all'Unione Europea di difendere i suoi confini, immaginando che arrivassero fino a Nuuk. Peccato che la Groenlandia sia parte della Danimarca ma non faccia parte dell'Ue, emancipandosene sin dal 1985 grazie a un referendum. Gli abitanti dell'isola all'84 per cento, secondo sondaggi dello scorso gennaio, vogliono l'indipendenza, a costo di perdere le cospicue sovvenzioni danesi. Il nuovo primo ministro groenlandese Jens-Frederik Nielsen ha opposto su Facebook un fiero no. «Apparteniamo solo a noi stessi. Decideremo noi il nostro futuro».

Sarebbe la terza volta che Washington ci prova. Nel 1867, nel 1910 e nel 1946 Copenaghen respinse i dollari senza trattare. L'ultima proposta, quella di Truman, un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, era stata di 100 milioni di dollari, equivalenti a un miliardo e 561 milioni della medesima moneta, come dire 27.

385 dollari per ciascuno dei 57mila groenlandesi. Se, come pare, nel giro di pochi anni avranno l'indipendenza, sorgerà il problema di chi provvederà alla Difesa. Non venderanno l'anima per una questione di principio, ma discuteranno il prezzo dell'affitto.

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