Crocetta non molla, alla faccia di Matteo

Roma Al Re Travicello/piovuto ai ranocchi,/mi levo il cappello/e piego i ginocchi;/lo predico anch'io/cascato da Dio:/oh comodo, oh bello/un Re Travicello!/Calò nel suo regno/con molto fracasso;/le teste di legno/fan sempre del chiasso... Detta da toscano, Giuseppe Giusti, a toscano, Matteo Renzi. Dubbio di mezza estate: ma poi il colosso che domina la ribalta politica e il proprio partito, è davvero un colosso? No, perché quando un leader si riduce allo sconfinamento di campo, a rubare la palla agli avversari, slogan e tenuta sociale, il dubbio viene. E se poi a lanciargli personalmente il guanto di sfida è uno come il governatore siciliano Crocetta - «il Pd provi a sfiduciarmi e saranno complici di un golpe... Passeranno alla storia come coloro che hanno ammazzato il primo governo antimafia della storia!» - la situazione sarà pure poco seria, ma di sicuro assai grave.

Meno tasse per tutti, ha promesso il premier all'Expo. «Le opposizioni dovrebbero essere felici», ha ribadito. Magari fosse vero, rispondono in coro gli italiani ricordando la bandiera di Forza Italia e i manifesti di Berlusconi. Fortuna vuole che il presidente dell'Anci, Piero Fassino, forse ultimo a sapere le cose, ieri si sia rasserenato e si sia detto pronto a sostenere l'idea del presidente del Consiglio. L'altro giorno, rivelano le cronache, pare invece che fosse uscito dall'assemblea pidina assai inquieto e roso dai dubbi a proposito della promessa: non è che fa il solito gioco delle tre carte e i soldi li toglie a noi sindaci? Peggiore l'accoglienza ricevuta dalla minoranza interna: «Proposta demagogica, Renzi imita Berlusconi», è insorto Gotor. Cuperlo, di rincalzo: «Non siamo al mercato delle figurine!». D'Attorre, era addirittura sbalordito dallo stile, in totale «continuità con il Cav, non con Bersani». E l'ex capogruppo Speranza: «Meno tasse, ma a chi ha di meno».

«Renzi è in difficoltà», dice Fassina, uscito da poco. Vero, perché si tratta di segni inequivocabili dell'insostenibile leggerezza del potere renziano, ormai vicino all'evanescenza, in attesa di dichiararsi prima o poi apertamente debolezza di re (Travicello). È come se il Pd, di metamorfosi in metamorfosi, stesse tornando a essere il partito dei cacicchi di dalemiana e veltroniana memoria (ce l'avevano con Bassolino). La tracotanza dei capi indigeni delle Antille e del Perù, questa l'origine del termine, fu oggetto di un'ispirata analisi di Zagrebelsky: «Il Pd a livello centrale è debolissimo e quindi a livello locale i cacicchi si sono scatenati».

La storia si ripete con varianti farsesche: mentre il Capo copia lo stile berlusconiano e va per tivù a sostenere «basta piagnistei, torniamo a essere locomotiva», il partito locale mantiene inalterate le stigmate della tradizione e gli avamposti di potere. Non amato dal Nazareno, il governatore Crocetta strepita come un forsennato contro il Pd. «Dimettermi? Ma manco per idea, non ho colpe. Questa è istigazione a un linciaggio». E il Pd abbozza, nonostante quello sia stato definito il «peggiore e più indecoroso governatore siciliano» (non da uno del Pd, bensì da Claudio Fava, figlio di Pippo). Così accade per la telenovela di Ignazio Marino a Roma, nella quale Orfini non tocca palla e il sindaco è ormai in crisi di nervi (a una cittadina che contestava la sporcizia ieri ha risposto: «Provi a connettere i due neuroni che ha e a farli funzionare»). Così per Milano, dove le fazioni pidine preferiscono l'auto-dilaniarsi senza che il Nazareno riesca a imporre una linea.

Così a Bari con Emiliano e in Campania con De Luca: il Pd resta imballato ad assistere impotente, non sapendo come uscirne.

In barba al leader che si vorrebbe carismatico e decisionista. Altroché: narciso innamorato del potere, e piccione zoppo.

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