La battaglia dei consolati tra Stati Uniti e Cina sconfina sul piano ideologico, e il contrasto tra l'Aquila americana e il Dragone cinese assume ogni giorno di più i contorni della guerra fredda tra le due nuove superpotenze, con Pechino che ora reagisce agli attacchi provenienti da Washington. La giornata di ieri ha mostrato due piani del braccio di ferro. Sotto il profilo delle misure concrete, la Cina ha risposto all'ordine americano di chiudere il suo consolato a Houston con uno uguale anche nelle motivazioni (operazioni ostili condotte nella sede diplomatica) che riguarda quello americano nella città cinese di Chengdu: rilevante perché ha giurisdizione anche sul Tibet. La magistratura americana, frattanto, ha incriminato altri tre ricercatori cinesi in California, procedendo ad altrettanti arresti con la grave accusa di attività antiamericane e appartenenza occulta alle forze armate cinesi. Sul piano diplomatico, invece, si registra un'impennata nel tono ideologico anticomunista usato dal segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che chiama «il mondo libero» a schierarsi contro la tirannia del regime cinese, attirandosi gli strali di Pechino che lo paragona a John Foster Dulles, protagonista negli anni Cinquanta del secolo scorso di una celebre crociata antisovietica.
Ieri, in un discorso tenuto alla Richard Nixon Library, Pompeo ha affermato con rinnovata enfasi che le azioni di Pechino «minacciano il nostro popolo e la nostra libertà», si è rivolto «alle nazioni amanti della libertà affinché inducano la Cina a cambiare» e ha lanciato un esplicito allarme: se il mondo libero non cambia ha detto «la Cina comunista cambierà sicuramente noi». Parole che hanno spinto il governo cinese a reagire con altrettanta chiarezza: Pompeo vuole lanciare una crociata anticinese e anticomunista come ai tempi di Eisenhower, e il suo «antagonismo ideologico», che mira in realtà a fermare lo sviluppo della Cina, non otterrà alcun risultato.
Nella sua reazione, Pechino si appella al mondo in cerca di sostegno e sembra sforzarsi di evitare di spingere il contrasto a un punto di non ritorno, attribuendo però la responsabilità della situazione unicamente a Washington. Da qui il pressante invito a riconsiderare l'ordine di chiusura del consolato cinese a Houston, accogliendo l'offerta cinese di un rinnovato impegno in favore di relazioni stabili tra i due Paesi rivali. Un invito che sembra però retorico, nel momento in cui la giustizia americana ha proceduto all'arresto di tre ricercatori cinesi (che si aggiungono a una quarta, Tang Yuan, rifugiata presso il consolato cinese a San Francisco) e fonti governative indicano nella sede diplomatica texana un centro di minacciose attività di intelligence cinese negli Stati Uniti, affidate a personale militare che nasconde la sua vera natura alle autorità Usa: per questo i cinesi arrestati rischiano pene fino a dieci anni di carcere.
Nei toni della risposta cinese a Pompeo si nota l'ostentazione della volontà di pace di Pechino e la sicurezza nella tenuta di un regime fondato su un'ideologia totalitaria. A ben vedere, nessuna delle due posizioni convince.
L'approccio aggressivo scelto da Xi Jinping nel Mar Cinese Meridionale con la sua pretesa illegale di imporvi la sovranità di Pechino e nei confronti di Taiwan e India smentiscono la prima, mentre la repressione antidemocratica a Hong Kong conferma la paura del regime di veder sconfinare in Cina un movimento di opposizione che già trent'anni fa a Tienanmen fu schiacciato nel sangue perché temutissimo.
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