Corruzione internazionale, reato punito con pene da sei a dieci anni di carcere. È questo lo spettro che incombe su Massimo D'Alema e Alessandro Profumo da ieri mattina, quando una lunga sequenza di bugie dette nei mesi scorsi va a schiantarsi contro l'avviso di garanzia che viene notificato all'ex presidente del Consiglio e all'ex amministratore delegato di Leonardo dalla procura di Napoli. I computer di entrambi vengono perquisiti alla ricerca di nuovi elementi sull'affare su cui da oltre un anno scavavano gli inquirenti: la trattativa con la Colombia per la fornitura di aerei e navi militari per cinque miliardi di euro. Un affare colossale su cui l'ex leader dei Ds e il suo entourage, secondo le intercettazioni dello stesso D'Alema, puntavano a incassare una provvigione da ottanta milioni di euro.
Ora si scopre che la metà della cifra era destinata a tornare in Colombia, nelle mani dell'ex ministro degli esteri Marta Ramirez. È questo il tassello decisivo, acquisito dagli inquirenti napoletani durante quattordici mesi di lavoro sottotraccia. Perché quando nel marzo 2022 la strana - e quasi incredibile - storia dei traffici di D'Alema e Profumo era venuta alla luce, la puzza di bruciato era tanta, e tanti erano i dettagli inspiegabili: il più ingombrante di tutti, il motivo per cui Leonardo aveva deciso di chiedere l'aiuto di «Baffino» per piazzare i suoi prodotti nonostante una trattativa ufficiale fosse già aperta tra i due Stati, seguita in prima persona dall'allora viceministro Giorgio Mulè.
Leonardo, contro ogni evidenza, aveva negato di avere ingaggiato come intermediario D'Alema. L'odore di bruciato aumentava. Ma non era chiaro se fossero stati commessi dei reati. Tanto che l'unica Procura a muoversi era stata quella di Napoli sulla base dell'esposto dell'Associazione parlamentare per il Mediterraneo, presieduta da Gennaro Migliore, la cui sigla era stata scippata da uno dei collaboratori di D'Alema e usata come schermo per le trattative. Quell'indagine, all'apparenza marginale e piuttosto innocua, è diventata il grimaldello per andare a scavare in profondità nella vicenda. Fino a individuare qual era il valore aggiunto della «cordata» di D'Alema, il canale non ufficiale utilizzato per oliare gli affari di Leonardo: ed ecco il nome, un nome eccellente. Perché Marta Ramirez, del partito conservatore, è stata ministro anche della Difesa e del Commercio estero del governo di Bogotà, e fino all'anno scorso vicepresidente della Repubblica. È a lei, dice l'avviso di garanzia notificato ieri a D'Alema e Profumo, che dovevano andare quaranta milioni di euro se l'affare fosse andato in porto.
Insieme a D'Alema, a Profumo e alla Ramirez finiscono nel registro degli indagati altri cinque interpreti del pasticcio. Tra questi Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di un paese pugliese sciolto per mafia, a sua volta indagato per diversi reati, che tra il gennaio e il febbraio del 2022 - i mesi caldi della trattativa - si muove come una sorta di plenipotenziario della cordata. A fare compagnia a Profumo nell'elenco degli indagati c'è un altro nome importante dell'industria di Stato, Giuseppe Giordo, direttore della divisione Navi militari di Fincantieri: che sembrava inizialmente defilata rispetto al nocciolo dell'inchiesta, e invece si ritrova anch'essa sotto tiro.
Massimo D'Alema reagisce all'avviso di garanzia ostentando sicurezza, il suo legale dice che l'ex premier «ha fornito la massima collaborazione all'autorità giudiziaria, siamo certi che sarà dimostrata la più assoluta infondatezza dell'ipotesi di reato a suo carico».
Ma è sotto gli occhi di tutti che l'offensiva della procura di Napoli trasforma in caso giudiziario un problema finora solo politico e istituzionale: il ruolo di Leonardo, quello che all'esplosione dello scandalo portò il senatore Maurizio Gasparri a chiedersi «se siamo davanti ad una azienda strategica di Stato o a una sezione staccata del Pds o, come si chiama adesso, del Pd».
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