Riunione di lavoro tra dirigenti, tutti siedono intorno al classico tavolo in vetro. Abbigliamento formale, caffè e acqua a disposizione per sostenere la lunga discussione che seguirà. Il figlio dell'amministratore delegato dell'azienda, una grossa impresa del milanese che opera nel campo della logistica, arriva per ultimo. Si alzano tutti in piedi: saluti, strette di mano. Si avvicina a una sua dipendente, inquadrata come quadro quindi con ruoli di grossa responsabilità, di 42 anni. «Fatemela abbracciare...». E mentre pronuncia la frase, che prosegue in modo scurrile (ma qui non la riporteremo per intero) le tocca pesantemente le parti intime. Davanti a tutti. Cala il gelo.
La lavoratrice, sconvolta, lascia la riunione e torna al suo posto. Tra i colleghi imbarazzati qualcuno la consola, qualcuno le dice di lasciare perdere, ma per tutti non è successo nulla di grave, lei invece lascia l'ufficio. La solidarietà è molto poca. Ma lei ci dorme su un paio di notti e infine denuncia il suo superiore. Violenza sessuale aggravata dall'abuso di autorità e relazioni d'ufficio è l'accusa che viene formulata dal pm Pasquale Addesso, del dipartimento fasce deboli della procura di Milano. Il pubblico ministero ora ha chiuso l'indagine a carico del 36enne, difeso dall'avvocato Pier Paolo Pasquarello, in vista della richiesta di rinvio a giudizio.
C'è di più. La lavoratrice, assistita dall'avvocata Laura Panciroli, chiede che venga aperto - all'interno dell'azienda - un procedimento disciplinare nei confronti del collega. Ma non solo non accade nulla, trattandosi per altro del figlio del proprietario. La donna, a suo dire, subisce un vero e proprio mobbing. Le viene proposto di occuparsi d'altro, con mansioni diverse e con responsabilità inferiori a quelle di prima. E per togliere tutti dall'imbarazzo, si fa per dire, le si impone anche di cambiare sede, spostandosi fuori da Milano. A quel punto la 42enne porta tutto davanti al tribunale del lavoro di Milano, e deposita un ricorso per «discriminazione di genere». Si tratta di una procedura d'urgenza che si può adottare anche qualora sussista un comportamento discriminatorio legato alla religione o all'etnia, ad esempio, e che può essere intrapresa direttamente dal lavoratore o tramite un'organizzazione sindacale.
In sostanza permette di ottenere la fine degli effetti delle discriminazioni, oltre al risarcimento del danno. La 42enne nel ricorso sottolinea che il demansionamento proposto è «illegittimo» e fa riferimento all'indagine davanti alla procura. Deciderà il giudice, nelle prossime settimane.
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