É un buco nero quello dei beni confiscati alle mafie. Da anni si susseguono allarmate relazioni della Corte dei Conti sul patrimonio sequestrato alla criminalità organizzata, gestito dall'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati.
Nell'ultima delibera della sezione di controllo pubblicata ieri, la Corte certifica di nuovo il fallimento del sistema. Buona parte dei beni - sopratutto immobili - rimane inutilizzata o versa in condizioni di totale degrado. Il paradosso è che l'Agenzia non ha nemmeno contezza di quanti e di dove siano tutti i beni. Si tratta però di un tesoro pubblico, che negli obiettivi della legge dovrebbe essere restituito alla collettività come segnale di vittoria dello Stato sulle mafie e di riscatto per la comunità. La Corte dei conti spiega che «malgrado le cospicue risorse umane e finanziarie impiegate, il volume delle informazioni raccolte sui beni sequestrati o confiscati non è ancora confluito in un sistema di dati affidabile, completo e pienamente consultabile». Molti beni dovrebbero essere dati in gestione ai comuni, ma spesso i costi per gestire e ristrutturare gli immobili - che arrivano agli enti locali molti anni dopo il sequestro in stato di degrado - sono troppo elevati. Così anche le onlus e le associazioni hanno le mani legate. Secondo i giudici contabili «gli ostacoli maggiori sono la lunghezza dei procedimenti, la ridotta disponibilità finanziaria dei Comuni e degli enti del terzo settore».
Secondo la relazione semestrale al Parlamento del dicembre 2021 del ministero della Giustizia, a quella data i beni confiscati - tra confisca definitive e non - inseriti nel database dell'Agenzia nazionale erano 95.106. Di questi, 34.909 erano quelli confiscati in via definitiva, e dunque pronti per essere assegnati alla collettività. Eppure solo 8.465 sono stati effettivamente «destinati» ai Comuni per un loro riutilizzo. Ma le cifre, come abbiamo visto, sono incerte. Uno dei nodi, secondo la Corte dei Conti, è «la scarsa conoscenza della loro esistenza e delle modalità di acquisizione», che «costituiscono significativi elementi di intralcio al riutilizzo sociale dei beni nell'ambito delle politiche di contrasto alle mafie».
I beni arrivano in gestione all'Agenzia nazionale solo dopo la confisca definitiva, e in stato di totale abbandono, visto che l'iter giudiziario delle misure di prevenzione può durare diversi anni. Anche se l'Ente avrebbe poteri di «custodia», per evitarne la rovina. Per la magistratura contabile le criticità «richiedono una rinnovata capacità di concentramento delle energie umane e finanziarie per restituire slancio e credibilità all'azione istituzionale». Basti pensare che spesso gli stessi Comuni in cui sono dislocati i beni sequestrati non sanno nemmeno della loro esistenza. Secondo le stime certificate dalla relazione della commissione parlamentare d'inchiesta sui beni confiscati datata 2021, «il 63 per cento dei Comuni può non essere a conoscenza di avere immobili di cui richiedere l'assegnazione».
Ieri Cgil e Libera chiedevano «un tavolo di lavoro e di confronto fra i soggetti sociali e il Governo sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati». Per il sindacato il patrimonio inutilizzato dallo Stato sarebbe una risorsa di edilizia pubblica: «Occorre istituire dei fondi a favore dei Comuni per cofinanziare l'acquisto e la ristrutturazione».
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