Shevchenko: "Difendo il calcio e i sogni. Meritiamo una pace giusta"

L'ex Pallone d'oro Andriy Shevchenko è presidente della Federazione ucraina: "Il Paese tenuto in vita da chi combatte"

Shevchenko: "Difendo il calcio e i sogni. Meritiamo una pace giusta"

Andriy Shevchenko l'anno prossimo compirà 50 anni. Era un ragazzino quando è arrivato in Italia e subito ha conquistato il cuore di tutti i tifosi milanisti. Ha segnato 175 gol con il Milan, ha vinto scudetto, Coppa Italia, Champions League, Supercoppa Europea e ha conquistato anche il pallone d'oro. È stato ct dell'Ucraina e oggi è presidente della Federazione calcistica del suo Paese. Schivo alle interviste, ha deciso di raccontarsi.

Lei è ucraino, ma è nato in Unione Sovietica, perché quando è nato lei l'Ucraina faceva ancora parte dell'Urss di Breznev. Come è stata la sua infanzia?

«Molto grigia, come può essere un'infanzia trascorsa in Unione Sovietica. L'ho vissuta dentro una falsa realtà, e ciò che mi ha salvato è stato un amore fortissimo per il calcio e per la Dynamo Kiev. Quand'ero bambino, per fortuna, grazie al calcio ho avuto l'opportunità di viaggiare, e di conoscere Paesi come l'Italia o la Francia, ho conosciuto l'Europa. Mi sono accorto che fuori dall'Unione Sovietica esisteva un mondo diverso, migliore. Un mondo a colori».

Mi dica la verità: spera che la pace in Ucraina si stia avvicinando?

«C'è un intero Paese che sta lavorando per quello. Tutti speriamo nella pace, purché sia una pace giusta. Io ci tengo molto a ringraziare sempre i nostri ragazzi e le nostre ragazze che stanno difendendo i confini del Paese. Che lo stanno tenendo in vita».

Partiamo dall'inizio. Quando ha cominciato a giocare a pallone?

«A 9 anni sono entrato nel settore giovanile della Dynamo Kiev ed è stata una grandissima emozione. La realtà è che credo di essere nato con il pallone ai piedi, perché prima di entrare a far parte ufficialmente di un club giocavo tutti i giorni con i miei amici. Ovunque. Un giorno ho calciato un pallone sul tetto di una casa, mi sono arrampicato per prenderlo. Mio padre un ex militare ha avvicinato a quel pallone uno strumento per misurare le radiazioni: quasi scoppiava. Da qualche ora era esploso il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl».

Mi parli della sua famiglia.

«Una famiglia di grandi lavoratori, a cui nessuno ha mai regalato nulla. Mio padre era un ex militare, mamma lavorava in un asilo. Da loro ho imparato che le cose non le regalano, vanno conquistate. Nella mia carriera non mi sono mai risparmiato, proprio perché ho seguito il loro esempio».

Alla fine degli anni '80 cade il comunismo e proprio in quegli anni esplode in Italia il Milan di Gullit, Van Basten e Ancelotti. Lei aveva 13, 14 anni, sentiva parlare del Milan? Cosa pensava?

«Lo vedevo in televisione, e mi accadeva una cosa molto strana: vedevo San Siro e sentivo un'emozione difficile da descrivere. Come se fosse il mio stadio, ma ancora non poteva esserlo, ero giovane. Eppure i brividi me li ricordo bene, come se fosse adesso. San Siro era speciale, qualcosa di diverso. San Siro, in qualche modo, era il mio grande sogno».

Quando ha capito di essere un campione di primissima fila?

«Più o meno avevo 16 anni, e mi rendevo conto di andare ad una velocità superiore rispetto a quella di tutti gli altri».

Mi racconti della trattativa con il Milan e poi dell'arrivo a Milano.

«Sembrava quasi un film. Giocavo nella Dynamo e agli allenamenti, a bordocampo, c'era sempre una persona che non conoscevo. Faceva finta di nulla, però mi accorgevo del fatto che era lì per me. Mi guardava, prendeva appunti. Era Rezo Chokhonelidze, mandato lì dal Milan per capire se fossi pronto per il campionato italiano. Poi un giorno è arrivato il direttore sportivo del Milan, il grande Ariedo Braida. Mi regalò una maglia del Milan e mi disse una cosa che non dimenticherò mai: Andriy, tu con questa maglia vincerai il Pallone d'Oro».

Berlusconi?

«Un uomo gentile».

Che presidente è stato?

«Se lo posso definire con una parola, leader».

Chi è stato il suo migliore allenatore?

«Ne cito due. Al Milan Carlo Ancelotti, che ancora oggi a Madrid dimostra di essere il più grande. In Ucraina il mio mentore è stato il colonnello Lobanovskyj, che mi ha insegnato l'arte della fatica e del sacrificio. Mi ha insegnato la vita. Mi ha insegnato tutto».

E il compagno di squadra con cui più si intendeva in campo?

«Quando al Milan è arrivato Kakà, abbiamo cambiato ulteriormente marcia. Con lui mi sono trovato alla grande. Come con Andrea Pirlo e Clarence Seedorf».

Con Inzaghi ci fu concorrenza?

«All'inizio sì, poi ho imparato a conoscerlo. Ho capito che lui viveva per il gol, per sfruttare il momento, che era proprio quella la sua grandezza. Quindi, ho imparato ad apprezzarlo».

Mi racconta di quell'ultimo rigore nella finale di Champions contro la Juve. Lei era molto teso. Prima di tirare guardò Ancelotti. Poi la palla, poi di nuovo Ancelotti, poi tirò. Aveva paura? E quando vide la palla entrare cosa provò?

«La verità è che non avevo paura. Continuavo a guardarmi intorno per cercare l'arbitro, non Ancelotti. C'era un enorme casino allo stadio, tantissimo rumore, e avevo paura di non sentire il suo fischio. Quindi lo guardavo in continuazione. Poi il fischio in effetti l'ho sentito, ho segnato il rigore decisivo, ho provato la gioia più grande della mia carriera da calciatore».

Mi racconti anche dell'inferno di Istanbul, quel 3-0 diventato 3-3, e lei se non ricordo male nei supplementari sbagliò un gol

«Mi ricordo la grande delusione, e un mese terribile dopo quella sconfitta. Molti compagni di squadra volevano smettere con il calcio, ritirarsi, interrompere lì la loro carriera. Ma da quella tremenda botta, grazie ad Ancelotti, siamo poi riusciti a tirare fuori il meglio, a prenderne la parte buona».

Si ricorda la sensazione quando vinse il Pallone d'oro?

«Un orgoglio difficile da raccontare. Il mio sogno era vincere il Pallone d'Oro come avevano già fatto altri due grandi ucraini: Oleg Blochin e Igor Belanov. Nei mesi scorsi il mio Pallone d'Oro è stato in tour, in treno, in tutte le principali città ucraine, comprese quelle maggiormente coinvolte dalla guerra. Ci deve essere da qualche parte un ragazzo che, vedendo quel Pallone d'Oro, sogna di essere il quarto ucraino della storia a vincerlo».

Dopo aver guidato la Nazionale ucraina come ct, quali sono le sfide più grandi che affronta ora come presidente della federazione?

«La sfida più grande è far sì che le partite non si fermino, nonostante questa terribile guerra voluta dalla Russia, che ha invaso l'Ucraina, cioè uno Stato sovrano. I bambini e le bambine devono poter continuare a sognare, grazie al calcio. E lo sa che una squadra di Kiev, la Lokomotiv, alla fine di maggio parteciperà al Torneo Manlio Selis in Sardegna, che è uno dei più importanti d'Europa a livello giovanile? Quel viaggio, i ragazzi, se lo ricorderanno per tutta la vita».

Come vede il futuro del calcio in Ucraina in un periodo così difficile per il Paese?

«Anche il futuro del calcio in Ucraina dipende dalla pace».

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